ARGOMENTO
Poiché l’infinita sapienza di Dio si manifesta nella mirabile struttura del cielo e della terra, è assolutamente impossibile esporre la Storia della Creazione del Mondo con parole adeguate alla sua dignità. Infatti, mentre la misura della nostra capacità è troppo ristretta per comprendere realtà di tale grandezza, la nostra lingua è ugualmente incapace di renderne un resoconto pieno e sostanziale. Tuttavia, come merita lode colui che, con modestia e riverenza, si applica alla considerazione delle opere di Dio, anche se raggiunge meno di quanto si potrebbe desiderare, così, se in questo genere di impegno io mi sforzo di aiutare gli altri secondo la capacità che mi è stata concessa, confido che il mio servizio sarà approvato non meno dagli uomini pii che accetto da Dio.
Ho scelto di premettere queste considerazioni non solo per giustificarmi, ma anche per ammonire i miei lettori: se desiderano sinceramente trarre profitto insieme a me dalla meditazione sulle opere di Dio, devono accostarsi ad esse con uno spirito sobrio, docile, mite e umile. In verità, vediamo il mondo con i nostri occhi, calpestiamo la terra con i nostri piedi, tocchiamo con le nostre mani innumerevoli specie delle opere di Dio, inaliamo una fragranza dolce e soave da erbe e fiori, godiamo di benefici senza misura; ma proprio in quelle stesse cose di cui giungiamo ad avere qualche conoscenza, risiede una tale immensità di potenza, bontà e sapienza divina da assorbire tutti i nostri sensi.
Pertanto, gli uomini si accontentino se ne ottengono solo un assaggio moderato, proporzionato alla loro capacità. E conviene che tendiamo a questo traguardo per tutta la nostra vita, in modo tale che, anche in età molto avanzata, non ci pentiremo dei progressi compiuti, purché siamo avanzati, anche di pochissimo, nel nostro cammino.
L’intenzione di Mosè, nel cominciare il suo Libro con la creazione del mondo, è quella di rendere Dio, per così dire, visibile a noi nelle sue opere. Ma qui sorgono uomini presuntuosi che, con scherno, domandano: da dove fu rivelato questo a Mosè? Essi quindi suppongono che egli parli favolosamente di cose sconosciute, perché non fu né spettatore degli eventi che narra, né apprese la loro verità mediante la lettura. Questo è il loro ragionamento; ma la loro disonestà è facilmente smascherata. Infatti, se possono distruggere la credibilità di questa storia perché risale a una lunga serie di epoche passate, provino allora anche che sono false quelle profezie nelle quali la medesima storia predice eventi che non ebbero luogo se non molti secoli dopo. Io affermo che sono chiare ed evidenti le cose che Mosè attesta riguardo alla vocazione dei Gentili, il cui compimento avvenne quasi duemila anni dopo la sua morte. Colui che, mediante lo Spirito, previde un evento lontano nel futuro e, al tempo, nascosto alla percezione degli uomini, non era forse capace di comprendere se il mondo fosse stato creato da Dio, soprattutto considerando che era istruito da un Maestro divino? Egli infatti non propone qui divinazioni proprie, ma è strumento dello Spirito Santo per la pubblicazione di quelle cose che era importante che tutti gli uomini conoscessero. Essi sbagliano gravemente nel ritenere assurdo che l’ordine della creazione, prima sconosciuto, sia stato infine da lui descritto e spiegato. Poiché egli non trasmette alla memoria cose mai udite prima, ma per la prima volta affida alla scrittura fatti che i padri avevano tramandato di mano in mano, attraverso una lunga successione di anni, ai loro figli. Possiamo forse concepire che l’uomo fosse posto sulla terra senza conoscere la propria origine e l’origine delle cose di cui godeva? Nessuna persona sana di mente dubita che Adamo fosse ben istruito riguardo a tutte queste cose. Divenne forse poi muto? I santi Patriarchi furono così ingrati da sopprimere nel silenzio un’istruzione tanto necessaria? Noè, ammonito da un giudizio divino così memorabile, trascurò forse di trasmetterlo alla posterità? Abramo è espressamente onorato con questo elogio, che fu il maestro e la guida della sua famiglia (Genesi 18:19). E sappiamo che, molto prima del tempo di Mosè, la conoscenza dell’alleanza nella quale Dio era entrato con i loro padri era comune a tutto il popolo. Quando egli dice che gli Israeliti provenivano da una stirpe santa, che Dio aveva scelto per sé, non lo propone come qualcosa di nuovo, ma si limita a ricordare ciò che tutti ritenevano vero, ciò che gli stessi anziani avevano ricevuto dai loro antenati e che, in breve, era del tutto incontestato tra loro. Pertanto, non dobbiamo dubitare che la Creazione del mondo, così come qui descritta, fosse già conosciuta attraverso l’antica e continua tradizione dei Padri. Tuttavia, poiché nulla è più facile che la verità di Dio venga così corrotta dagli uomini da degenerare, per così dire, da se stessa nel corso di una lunga successione di tempi, piacque al Signore affidare la storia alla scrittura, allo scopo di conservarne la purezza. Mosè, dunque, ha stabilito la credibilità di quella dottrina che è contenuta nei suoi scritti e che, per la negligenza degli uomini, avrebbe altrimenti potuto andare perduta.
Ora ritorno al disegno di Mosè, o piuttosto dello Spirito Santo, che ha parlato per la sua bocca. Conosciamo Dio, che è in se stesso invisibile, solo attraverso le sue opere. Perciò l’Apostolo chiama elegantemente i mondi, τὰ μὴ ἐκ φαινομένων βλεπόμενα, come se dicesse: «la manifestazione di cose non apparenti» (Ebrei 11:3). Questa è la ragione per cui il Signore, affinché ci inviti alla conoscenza di sé, pone davanti ai nostri occhi la struttura del cielo e della terra, rendendosi in un certo modo manifesto in essi. Infatti, la sua eterna potenza e divinità (come dice Paolo) vi sono chiaramente esibite (Romani 1:20). Ed è verissima quella dichiarazione di Davide, secondo cui i cieli, pur senza lingua, sono tuttavia eloquenti araldi della gloria di Dio, e questo ordine bellissimo della natura proclama silenziosamente la sua mirabile sapienza (Salmo 19:1).
Ciò deve essere osservato con maggiore diligenza, poiché sono pochissimi quelli che seguono il giusto metodo di conoscere Dio, mentre la maggior parte si attacca alle creature senza alcuna considerazione del Creatore stesso. Gli uomini infatti sono comunemente soggetti a due estremi: alcuni, dimentichi di Dio, applicano tutta la forza della loro mente alla considerazione della natura; altri, trascurando le opere di Dio, aspirano con una curiosità stolta e folle a investigare la sua Essenza. Entrambi faticano invano. Occuparsi così intensamente nell’indagine dei segreti della natura da non volgere mai gli occhi al suo Autore è uno studio del tutto perverso; e godere di tutto ciò che è nella natura senza riconoscere l’Autore del beneficio è la più vile ingratitudine.
Perciò coloro che pretendono di essere filosofi senza Religione e che, mediante le loro speculazioni, agiscono in modo da allontanare da sé Dio e ogni senso di pietà, un giorno sentiranno la forza dell’espressione di Paolo, riferita da Luca, secondo cui Dio non ha mai lasciato se stesso senza testimonianza (Atti 14:17). Essi infatti non saranno autorizzati a sfuggire impunemente, poiché sono stati sordi e insensibili a testimonianze tanto illustri. E in verità, è segno di colpevole ignoranza non vedere mai Dio, che ovunque dà segni della sua presenza. Ma se ora gli schernitori riescono a sottrarsi con le loro cavillosità, in seguito la loro terribile distruzione renderà testimonianza del fatto che essi furono ignoranti di Dio solo perché volontariamente e maliziosamente accecati.
Quanto a coloro che, con orgoglio, si innalzano al di sopra del mondo per cercare Dio nella sua essenza svelata, è impossibile che alla fine non si aggroviglino in una moltitudine di fantasie assurde. Infatti Dio — altrimenti invisibile (come abbiamo già detto) — si riveste, per così dire, dell’immagine del mondo nel quale vuole presentarsi alla nostra contemplazione. Coloro che non si degnano di contemplarlo così magnificamente adorno nell’incomparabile veste dei cieli e della terra, subiscono poi la giusta punizione del loro superbo disprezzo nelle proprie fantasticherie.
Pertanto, non appena il nome di Dio risuona alle nostre orecchie o il pensiero di lui si presenta alla nostra mente, rivestiamolo anche di questo ornamento bellissimo; infine, se desideriamo conoscere rettamente Dio, facciamo del mondo la nostra scuola.
Anche qui viene confutata l’empietà di coloro che cavillano contro Mosè, per il fatto che egli riferisce che dalla Creazione del mondo fosse trascorso uno spazio di tempo così breve. Essi infatti si chiedono perché fosse venuto così improvvisamente in mente a Dio di creare il mondo; perché fosse rimasto così a lungo inattivo in cielo: e così, scherzando con le cose sacre, esercitano il loro ingegno a propria rovina. Nella *Storia Tripartita* è registrata una risposta data da un uomo pio, che mi è sempre piaciuta. Poiché, quando un certo cane impuro riversava in questo modo il suo scherno contro Dio, egli ribatté che Dio, in quel tempo, non era affatto inattivo, poiché stava preparando l’inferno per i cavillosi. Ma con quali correttivi si può frenare l’arroganza di uomini per i quali la sobrietà è dichiaratamente spregevole e odiosa? E certamente coloro che ora esultano così liberamente nel trovare difetti nell’inattività di Dio scopriranno, a loro grandissimo costo, che la sua potenza è stata infinita nel preparare l’inferno per loro.
Quanto a noi, non dovrebbe sembrarci così assurdo che Dio, appagato in se stesso, non abbia creato un mondo di cui non aveva bisogno prima di quanto gli parve opportuno. Inoltre, poiché la sua volontà è la regola di ogni sapienza, dobbiamo accontentarci di essa soltanto. Infatti Agostino afferma giustamente che i Manichei fanno ingiustizia a Dio, perché esigono una causa superiore alla sua volontà; ed egli avverte prudentemente i suoi lettori di non spingere le loro indagini riguardo all’infinità della durata più di quanto non le spingano riguardo all’infinità dello spazio.
Noi infatti non ignoriamo che il circuito dei cieli è finito e che la terra, come un piccolo globo, è posta al centro. Coloro che si risentono del fatto che il mondo non sia stato creato prima, potrebbero altrettanto bene rimproverare Dio per non aver creato innumerevoli mondi. Anzi, poiché ritengono assurdo che molte età siano trascorse senza alcun mondo, dovrebbero piuttosto riconoscere che ciò è una prova della grande corruzione della loro stessa natura: poiché, in confronto all’immensa distesa che rimane vuota, il cielo e la terra occupano solo un piccolo spazio. Ma poiché sia l’eternità dell’esistenza di Dio sia l’infinità della sua gloria costituirebbero un duplice labirinto, accontentiamoci di desiderare con modestia di non procedere nelle nostre indagini oltre il punto in cui il Signore, mediante la guida e l’insegnamento delle sue stesse opere, ci invita a farlo.
Ora, nel descrivere il mondo come uno specchio nel quale dovremmo contemplare Dio, non intendo affermare né che i nostri occhi siano abbastanza acuti da discernere ciò che l’ordine del cielo e della terra rappresenta, né che la conoscenza che se ne può trarre sia sufficiente per la salvezza. E sebbene il Signore ci inviti a sé mediante le cose create, con il solo effetto di renderci così inescusabili, egli ha aggiunto (come era necessario) un nuovo rimedio, o almeno, con un nuovo aiuto, ha soccorso l’ignoranza della nostra mente. Infatti, mediante la Scrittura come nostra guida e maestra, egli non solo rende manifeste cose che altrimenti ci sfuggirebbero, ma quasi ci costringe a contemplarle; come se avesse soccorso la nostra vista ottusa con degli occhiali.
Su questo punto (come abbiamo già osservato) insiste Mosè. Poiché, se l’insegnamento muto del cielo e della terra fosse stato sufficiente, l’insegnamento di Mosè sarebbe stato superfluo. Si presenta dunque questo araldo, che desta la nostra attenzione affinché ci rendiamo conto di essere stati posti in questo scenario allo scopo di contemplare la gloria di Dio; non certo per osservarle come semplici testimoni, ma per godere di tutte le ricchezze che qui sono esibite, come il Signore le ha ordinate e sottomesse al nostro uso. Ed egli non si limita a dichiarare in modo generale che Dio è l’artefice del mondo, ma, lungo l’intera trama della storia, mostra quanto siano ammirevoli la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà e, soprattutto, la sua tenera sollecitudine per il genere umano.
Inoltre, poiché la Parola eterna di Dio è l’immagine viva ed espressa di se stesso, egli ci riconduce a questo punto. E così si verifica l’affermazione dell’Apostolo, che solo mediante la fede si può comprendere che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio (Ebrei 11:3). Poiché la fede propriamente nasce da questo: che, istruiti dal ministero di Mosè, non vaghiamo più in speculazioni stolte e frivole, ma contempliamo il vero e unico Dio nella sua immagine genuina.
Si potrebbe tuttavia obiettare che ciò sembra essere in contrasto con quanto dichiara Paolo:
«Poiché, nella sapienza di Dio, il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare quelli che credono mediante la follia della predicazione» (1 Corinzi 1:21).
Poiché egli così lascia intendere che Dio è cercato invano sotto la guida delle cose visibili; e che non ci resta altro se non ritirarci immediatamente a Cristo; e che quindi non dobbiamo cominciare dagli elementi di questo mondo, ma dal Vangelo, che ci pone davanti Cristo solo con la sua croce e ci mantiene fermi su questo unico punto. Rispondo: è vano che qualcuno ragioni da filosofo sull’opera del mondo, se non coloro che, essendo stati prima umiliati dalla predicazione del Vangelo, hanno imparato a sottomettere tutta la loro sapienza intellettuale (come si esprime Paolo) alla follia della croce (1 Corinzi 1:21). Nulla troveremo, dico, né in alto né in basso, che possa elevarci a Dio, finché Cristo non ci abbia istruiti nella sua stessa scuola. Tuttavia ciò non può avvenire, se non quando noi, usciti dalle più profonde voragini, siamo portati al di sopra di tutti i cieli, nel carro della sua croce, affinché là, mediante la fede, possiamo afferrare quelle cose che occhio non ha mai visto, orecchio non ha mai udito e che superano di gran lunga il nostro cuore e la nostra mente.
Infatti, non è la terra, con la sua provvista di frutti per il nostro nutrimento quotidiano, che ci viene lì presentata; ma Cristo offre se stesso a noi per la vita eterna. Né il cielo, con lo splendore del sole e delle stelle, illumina i nostri occhi corporei, ma lo stesso Cristo, la Luce del mondo e il Sole di giustizia, risplende nelle nostre anime; né l’aria distende per noi il suo spazio vuoto perché possiamo respirare, ma lo Spirito di Dio stesso ci vivifica e ci fa vivere. Lì, in breve, il regno invisibile di Cristo riempie ogni cosa, e la sua grazia spirituale si diffonde ovunque.
Ciò nondimeno, questo non ci impedisce di applicare i nostri sensi alla considerazione del cielo e della terra, affinché da essi cerchiamo una conferma nella vera conoscenza di Dio. Poiché Cristo è quell’immagine nella quale Dio pone davanti ai nostri occhi non solo il suo cuore, ma anche le sue mani e i suoi piedi. Chiamo suo cuore quell’amore segreto con cui ci abbraccia in Cristo; con le sue mani e i suoi piedi intendo quelle sue opere che sono esposte alla nostra vista. Non appena ci allontaniamo da Cristo, non c’è nulla, per quanto grossolano o insignificante in sé, riguardo al quale non siamo necessariamente ingannati.
E, in effetti, sebbene Mosè, in questo Libro, inizi con la creazione del mondo, tuttavia non ci limita a questo argomento. Infatti, queste cose devono essere connesse tra loro: che il mondo è stato fondato da Dio e che l’uomo, dopo essere stato dotato della luce dell’intelligenza e adornato di tanti privilegi, è caduto per propria colpa ed è stato così privato di tutti i benefici che aveva ottenuto; poi, per la compassione di Dio, è stato restaurato alla vita che aveva perduto, e ciò mediante la benevolenza di Cristo; affinché vi fosse sempre sulla terra qualche assemblea che, adottata nella speranza della vita celeste, potesse in questa fiducia adorare Dio.
Il fine a cui tende l’intero corso della storia è questo: mostrare che il genere umano è stato preservato da Dio in modo tale da manifestare la sua particolare cura per la sua Chiesa. Questo infatti è l’argomento del libro: dopo che il mondo fu creato, l’uomo vi fu posto come in un teatro, affinché, contemplando sopra di sé e sotto di sé le meravigliose opere di Dio, potesse adorare con riverenza il loro Autore. In secondo luogo, che tutte le cose furono ordinate per l’uso dell’uomo, affinché egli, essendo sotto un obbligo più profondo, si dedicasse e si consacrasse interamente all’obbedienza verso Dio. In terzo luogo, che egli fu dotato di intelletto e di ragione, affinché, distinto dagli animali bruti, meditasse su una vita migliore e potesse persino tendere direttamente verso Dio, la cui immagine portava impressa nella propria persona.
In seguito venne la caduta di Adamo, mediante la quale egli si alienò da Dio; da ciò derivò che fu privato di ogni rettitudine. Così Mosè rappresenta l’uomo come privo di ogni bene, accecato nell’intelligenza, perverso nel cuore, corrotto in ogni parte e sottoposto alla sentenza di morte eterna; ma subito aggiunge la storia della sua restaurazione, nella quale Cristo risplende con il beneficio della redenzione. Da questo punto in poi egli non solo narra in modo continuo la singolare Provvidenza di Dio nel governare e preservare la Chiesa, ma ci raccomanda anche il vero culto di Dio; insegna in che cosa consista la salvezza dell’uomo ed esorta, dall’esempio dei Padri, alla costanza nel sopportare la croce.
Chiunque dunque desideri trarre un profitto adeguato da questo libro, applichi la sua mente a questi temi principali. Ma soprattutto osservi che, sebbene Adamo con la sua rovinosa caduta abbia distrutto se stesso e tutta la sua posterità, questo è il fondamento della nostra salvezza, questa l’origine della Chiesa: che noi, tratti fuori da una profonda oscurità, abbiamo ottenuto una nuova vita per la sola grazia di Dio; che i Padri (secondo l’offerta fatta loro mediante la parola di Dio) sono resi partecipi di questa vita mediante la fede; che questa stessa parola era fondata su Cristo; e che tutti i pii che sono vissuti in seguito sono stati sostenuti dalla medesima promessa di salvezza mediante la quale Adamo fu per la prima volta rialzato dalla sua caduta.
Pertanto, la successione perpetua della Chiesa è scaturita da questa fonte: che i santi Padri, uno dopo l’altro, avendo per fede accolto la promessa offerta, furono raccolti insieme nella famiglia di Dio, affinché avessero una vita comune in Cristo. Questo dobbiamo considerarlo con grande attenzione, per sapere quale sia la società della vera Chiesa e quale la comunione della fede tra i figli di Dio. Poiché Mosè fu costituito Maestro degli Israeliti, non vi è dubbio che egli avesse un riferimento particolare a loro, affinché si riconoscessero come un popolo eletto e scelto da Dio; e affinché cercassero la certezza di questa adozione nel Patto che il Signore aveva ratificato con i loro padri, e sapessero che non vi era altro Dio né altra retta fede. Ma fu anche sua volontà testimoniare a tutte le età che chiunque desideri adorare Dio rettamente ed essere considerato membro della Chiesa non deve seguire altra via se non quella che qui è prescritta.
Ora, come questo è l’inizio della fede — conoscere che vi è un solo vero Dio che noi adoriamo — così non è una conferma ordinaria di questa fede il fatto che siamo compagni dei Patriarchi; poiché, come essi possedettero Cristo come pegno della loro salvezza quando egli non era ancora apparso, così noi conserviamo il Dio che un tempo si manifestò a loro. Da ciò possiamo dedurre la differenza tra il culto puro e legittimo di Dio e tutti quei servizi adulterati che in seguito sono stati fabbricati dall’inganno di Satana e dalla perversa audacia degli uomini.
Inoltre, deve essere considerato il governo della Chiesa, affinché il lettore giunga alla conclusione che Dio ne è stato il Custode e il Sovrano perpetuo, ma in modo tale da esercitarla nella milizia della croce. Qui, in verità, si presentano allo sguardo i conflitti peculiari della Chiesa, o piuttosto il corso stesso è posto davanti ai nostri occhi come in uno specchio, nel quale conviene che noi, insieme ai santi Padri, tendiamo alla meta di una beata immortalità.
Ascoltiamo ora Mosè.
Versetto 1
In principio. Spiegare il termine “principio” riferendolo a Cristo è del tutto frivolo. Mosè infatti intende semplicemente affermare che il mondo non fu portato a compimento fin dal suo primissimo inizio nel modo in cui ora lo vediamo, ma che fu creato come un caos vuoto di cielo e di terra. Il suo linguaggio può dunque essere spiegato così: quando Dio in principio creò il cielo e la terra, la terra era vuota e desolata. Inoltre egli insegna, mediante la parola “creò”, che ciò che prima non esisteva ora fu fatto; infatti non usa il termine יצר (*yatsar*), che significa plasmare o formare, ma ברא (*bara*), che significa creare. Il suo significato, dunque, è che il mondo fu fatto dal nulla. Ne consegue che è confutata la stoltezza di coloro che immaginano che una materia informe sia esistita dall’eternità e che non ricavano altro dal racconto di Mosè se non che il mondo fu ornato di nuovi abbellimenti e ricevette una forma di cui prima era privo. Questa fu un tempo una favola comune tra i pagani, i quali avevano ricevuto solo un racconto oscuro della creazione e che, secondo il loro costume, adulteravano la verità di Dio con fantasie estranee; ma che uomini cristiani si affatichino (come fa Steuco) nel sostenere un errore così grossolano è assurdo e intollerabile. Si mantenga dunque innanzitutto questo: che il mondo non è eterno, ma fu creato da Dio. Non vi è dubbio che Mosè dia il nome di cielo e di terra a quella massa confusa che poco dopo (Genesi 1:2) chiama acque. La ragione è che questa materia doveva essere il seme di tutto il mondo. Inoltre, questa è la divisione del mondo generalmente riconosciuta. Dio. Mosè lo chiama Elohim, un sostantivo di numero plurale. Da ciò si trae l’inferenza che qui siano indicati le tre Persone della Divinità; ma poiché, come prova di una questione tanto grande, ciò mi sembra avere poca solidità, non insisterò sulla parola; anzi, metterò in guardia i lettori dal diffidare di glosse forzate di questo genere. Essi pensano di avere una testimonianza contro gli Ariani, per dimostrare la divinità del Figlio e dello Spirito; ma nel frattempo si coinvolgono nell’errore di Sabellio, perché Mosè aggiunge subito dopo che gli Elohim avevano parlato e che lo Spirito degli Elohim riposava sulle acque. Se supponiamo che qui siano indicate tre persone, non vi sarà alcuna distinzione tra esse. Ne seguirà infatti sia che il Figlio è generato da se stesso, sia che lo Spirito non è del Padre, ma di se stesso. Per me è sufficiente che il numero plurale esprima quelle potenze che Dio esercitò nel creare il mondo. Inoltre riconosco che la Scrittura, sebbene ricordi molte potenze della Divinità, tuttavia ci riconduce sempre al Padre, e alla sua Parola e al suo Spirito, come vedremo fra poco. Ma quelle assurdità alle quali ho accennato ci vietano di deformare con sottigliezze ciò che Mosè dichiara semplicemente riguardo a Dio stesso, applicandolo alle Persone distinte della Divinità. Questo, tuttavia, ritengo sia fuori di ogni controversia: che, dalla particolare circostanza del passo stesso, qui è attribuito a Dio un titolo che esprime quella potenza che in qualche modo era già inclusa nella sua essenza eterna.
Versetto 2
*E la terra era informe e vuota.* Non sarò molto sollecito nell’esposizione di questi due epiteti, תוהו (*tohu*) e בוהו (*bohu*). Gli Ebrei li usano quando designano qualcosa di vuoto e confuso, o vano e di nessun valore. Senza dubbio Mosè li ha posti entrambi in opposizione a tutti quegli oggetti creati che riguardano la forma, l’ornamento e la perfezione del mondo. Se ora togliessimo, dico, dalla terra tutto ciò che Dio aggiunse dopo il tempo qui ricordato, avremmo allora questo caos rozzo e non lavorato, o piuttosto informe. Pertanto considero ciò che egli aggiunge immediatamente, cioè che «le tenebre erano sulla faccia dell’abisso», come parte di quella vuota confusione: poiché la luce cominciò a dare al mondo una certa apparenza esteriore. Per la stessa ragione egli la chiama abisso e acque, poiché in quella massa di materia nulla era solido o stabile, nulla di distinto. E lo Spirito di Dio. Gli interpreti hanno travisato questo passo in vari modi. L’opinione di alcuni, secondo cui esso significherebbe il vento, è troppo fredda per richiedere una confutazione. Coloro che lo intendono come lo Spirito eterno di Dio fanno bene; tuttavia non tutti colgono il pensiero di Mosè nel contesto del suo discorso; da qui nascono le varie interpretazioni del participio מרחפת (merachepeth). Esporrò anzitutto ciò che, a mio giudizio, Mosè intendeva. Abbiamo già udito che, prima che Dio avesse portato a perfezione il mondo, esso era una massa informe; ora egli insegna che era necessaria la potenza dello Spirito per sostenerla. Infatti poteva sorgere questo dubbio nella mente: come poteva reggersi un ammasso così disordinato, dal momento che ora vediamo il mondo conservato dal governo, cioè dall’ordine? Egli dunque afferma che questa massa, per quanto confusa fosse, venne resa stabile, per un certo tempo, dalla segreta efficacia dello Spirito. Ora vi sono due significati della parola ebraica che si adattano al presente passo: o che lo Spirito si muovesse e si agitasse sopra le acque, per esercitare la sua forza; oppure che covasse su di esse per nutrirle. Poiché, quanto al risultato, fa poca differenza quale di queste spiegazioni si preferisca, si lasci libero il giudizio del lettore. Ma se quel caos richiedeva la segreta ispirazione di Dio per non dissolversi rapidamente, come potrebbe questo ordine, così bello e distinto, sussistere da sé, se non traesse forza da altrove? Pertanto deve adempiersi quella Scrittura: «Mandi il tuo Spirito, ed essi sono creati, e tu rinnovi la faccia della terra» (Salmi 104:30); così, d’altra parte, non appena il Signore ritira il suo Spirito, tutte le cose ritornano nella loro polvere e svaniscono (Salmi 104:29).
Versetto 3
E Dio disse. Mosè ora, per la prima volta, introduce Dio nell’atto di parlare, quasi che avesse creato la massa del cielo e della terra senza la Parola. Eppure Giovanni testimonia che «senza di lui nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto» (Giovanni 1:3). Ed è certo che il mondo ebbe inizio per la stessa efficacia della Parola mediante la quale fu portato a compimento. Dio, tuttavia, non manifestò la sua Parola finché non procedette a dare origine alla luce; poiché nell’atto del distinguere la sua sapienza comincia a rendersi manifesta. Questa sola cosa è sufficiente a confutare la bestemmia di Serveto. Questo empio sofista afferma che il primo inizio della Parola avvenne quando Dio comandò che la luce fosse; come se, in verità, la causa non precedesse il suo effetto. Poiché però mediante la Parola di Dio le cose che non erano vennero improvvisamente all’esistenza, dobbiamo piuttosto inferire l’eternità della sua essenza. Perciò gli Apostoli dimostrano giustamente la divinità di Cristo dal fatto che, poiché egli è la Parola di Dio, tutte le cose sono state create per mezzo di lui. Serveto immagina una nuova qualità in Dio quando egli comincia a parlare. Ma dobbiamo pensare ben diversamente riguardo alla Parola di Dio, cioè che essa è la Sapienza che dimora in Dio, e senza la quale Dio non potrebbe mai essere; il cui effetto, tuttavia, divenne manifesto quando fu creata la luce. «Sia la luce». Era opportuno che la luce, mediante la quale il mondo doveva essere adornato di così eccellente bellezza, fosse creata per prima; e questo fu anche l’inizio della distinzione (fra le creature). Tuttavia, non avvenne per disattenzione o per caso che la luce precedesse il sole e la luna. Nulla ci è più naturale che vincolare la potenza di Dio a quegli strumenti di cui egli si serve come mezzi. Il sole e la luna ci forniscono la luce; e, secondo il nostro modo di pensare, includiamo a tal punto in essi questo potere di illuminare che, se fossero tolti dal mondo, sembrerebbe impossibile che restasse alcuna luce. Pertanto il Signore, mediante l’ordine stesso della creazione, rende testimonianza di avere nelle sue mani la luce, che egli è capace di comunicarci anche senza il sole e la luna. Inoltre, dal contesto è certo che la luce fu creata in modo da alternarsi con le tenebre. Ma si può chiedere se luce e tenebre si succedessero a turno lungo tutto il circuito del mondo, oppure se le tenebre occupassero una metà del cerchio mentre la luce splendeva nell’altra. Non vi è però dubbio che l’ordine della loro successione fosse alternato; ma se fosse giorno ovunque nello stesso tempo, e ovunque notte allo stesso modo, preferisco lasciarlo indeciso; né è una cosa di grande necessità da conoscere.
Versetto 4
E Dio vide la luce. Qui Dio è presentato da Mosè come colui che esamina la propria opera, per trarne compiacimento. Ma egli lo fa per il nostro bene, per insegnarci che Dio non ha fatto nulla senza una ragione e un disegno precisi. Non dobbiamo quindi intendere le parole di Mosè come se Dio non sapesse che la sua opera era buona finché non fosse stata completata. Il senso del passo è piuttosto che l’opera, così come ora la vediamo, fu approvata da Dio. Pertanto non resta a noi altro che acquiescere a questo giudizio di Dio. E questa ammonizione è molto utile. Infatti, mentre l’uomo dovrebbe applicare tutti i suoi sensi all’ammirata contemplazione delle opere di Dio, vediamo quanta libertà egli si permetta in realtà nel denigrarle.
Versetto 5
E Dio chiamò la luce. Cioè, Dio volle che vi fosse una regolare vicissitudine di giorni e di notti; e ciò seguì immediatamente quando il primo giorno giunse al termine. Infatti Dio sottrasse la luce alla vista, affinché la notte fosse l’inizio di un altro giorno. Ciò che Mosè dice, tuttavia, ammette una duplice interpretazione: o che questa fosse la sera e la mattina appartenenti al primo giorno, oppure che il primo giorno consistesse della sera e della mattina. Qualunque interpretazione si scelga, non cambia nulla nel senso, poiché egli intende semplicemente che il giorno fosse composto di due parti. Inoltre, egli fa iniziare il giorno, secondo l’usanza della sua nazione, dalla sera. È inutile disputare se questo sia o meno l’ordine migliore e legittimo. Sappiamo che le tenebre precedettero il tempo stesso; quando Dio ritirò la luce, concluse il giorno. Non dubito che i più antichi padri, per i quali la notte che sopraggiungeva era la fine di un giorno e l’inizio di un altro, seguissero questo modo di computare. Benché Mosè non intendesse qui prescrivere una regola la cui violazione sarebbe stata colpevole, tuttavia (come abbiamo detto) egli adattò il suo discorso all’uso comune. Perciò, come i Giudei condannano stupidamente tutti i computi degli altri popoli, come se Dio avesse sancito soltanto questo; così, d’altra parte, sono ugualmente stolti coloro che sostengono che questo sobrio computo, che Mosè approva, sia assurdo. Il primo giorno Qui è manifestamente confutato l’errore di coloro che sostengono che il mondo sia stato fatto in un istante. Infatti è una cavillazione troppo forzata affermare che Mosè distribuisca in sei giorni l’opera che Dio avrebbe compiuto tutta insieme, al solo scopo di impartire un insegnamento. Concludiamo piuttosto che Dio stesso abbia impiegato lo spazio di sei giorni, allo scopo di adattare le sue opere alla capacità degli uomini. Noi passiamo con leggerezza sopra l’infinita gloria di Dio che qui risplende; da dove nasce ciò, se non dalla nostra eccessiva ottusità nel considerare la sua grandezza? Nel frattempo, la vanità della nostra mente ci trascina altrove. Per correggere questo difetto, Dio applicò il rimedio più adatto quando distribuì la creazione del mondo in parti successive, affinché fissasse la nostra attenzione e ci costringesse, come se avesse posato la sua mano su di noi, a fermarci e a riflettere. A conferma della glossa sopra menzionata, viene citato in modo poco accorto un passo dell’Ecclesiastico: «Colui che vive in eterno ha creato tutte le cose insieme» (Siracide 18:1). Infatti l’avverbio greco κοινῇ, usato dall’autore, non significa affatto questo, né si riferisce al tempo, ma a tutte le cose universalmente.
Versetto 6
Sia fatto un firmamento. L’opera del secondo giorno consiste nel predisporre uno spazio vuoto attorno alla circonferenza della terra, affinché il cielo e la terra non siano mescolati insieme. Poiché infatti il proverbio «mescolare cielo e terra» indica il massimo grado di disordine, questa distinzione deve essere considerata di grande importanza. Inoltre, la parola רקיע (*rakia*) comprende non solo l’intera regione dell’aria, ma tutto ciò che è aperto sopra di noi, così come talvolta la parola *cielo* è intesa dai Latini. Pertanto, la disposizione tanto dei cieli quanto dell’atmosfera inferiore è chiamata senza distinzione רקיע (*rakia*); ma talvolta la parola significa entrambe le cose insieme, talvolta una sola parte, come apparirà più chiaramente nel seguito. Non so perché i Greci abbiano scelto di rendere questa parola con ςτερέωμα, che i Latini hanno imitato nel termine *firmamentum*; poiché letteralmente essa significa *distesa*. A ciò allude Davide quando dice che «i cieli sono distesi da Dio come una tenda» (Salmi 104:2). Se qualcuno domandasse se questa vacuità non esistesse già in precedenza, rispondo che, per quanto possa essere vero che non tutte le parti della terra fossero sommerse dalle acque, tuttavia ora, per la prima volta, fu stabilita una separazione, mentre prima esisteva una mescolanza confusa. Mosè descrive l’uso specifico di questa distesa, cioè di dividere le acque dalle acque, da cui nasce una grande difficoltà. Infatti sembra contrario al senso comune, e del tutto incredibile, che vi siano acque al di sopra del cielo. Perciò alcuni ricorrono all’allegoria e filosofeggiano sugli angeli; ma ciò è del tutto fuori luogo. A mio avviso, infatti, questo è un principio certo: qui non si tratta di altro che della forma visibile del mondo. Chi desidera apprendere l’astronomia e altre arti più recondite, vada altrove. Qui lo Spirito di Dio vuole istruire tutti gli uomini senza eccezione; e pertanto ciò che Gregorio afferma falsamente e inutilmente riguardo alle statue e alle immagini è in realtà applicabile alla storia della creazione, vale a dire che essa è il libro degli ignoranti. Le cose che egli racconta servono dunque come ornamento di quel teatro che pone davanti ai nostri occhi. Da ciò concludo che le acque qui intese sono tali quali possono essere percepite dai rozzi e dagli ignoranti. L’affermazione di alcuni, secondo cui essi accolgono per fede ciò che hanno letto riguardo alle acque sopra i cieli, nonostante la loro ignoranza su di esse, non è conforme all’intento di Mosè. E in verità una più lunga indagine su una materia aperta e manifesta è superflua. Vediamo che le nubi sospese nell’aria, le quali minacciano di cadere sulle nostre teste, tuttavia ci lasciano spazio per respirare. Coloro che negano che ciò avvenga per la meravigliosa provvidenza di Dio sono vanamente gonfiati dalla follia delle proprie menti. Sappiamo, infatti, che la pioggia è prodotta secondo natura; ma il diluvio mostra sufficientemente quanto rapidamente potremmo essere sommersi dallo scoppio delle nubi, se le cateratte del cielo non fossero chiuse dalla mano di Dio. Né Davide annovera temerariamente questo tra i Suoi miracoli, quando dice che Dio «pone le travi delle sue dimore nelle acque» (Salmi 104:31); e altrove invita le acque celesti a lodare Dio (Salmi 148:4). Poiché dunque Dio ha creato le nubi e ha assegnato loro una regione sopra di noi, non si deve dimenticare che esse sono trattenute dalla potenza di Dio, affinché, prorompendo con improvvisa violenza, non ci inghiottano; e tanto più considerando che nessun’altra barriera si oppone loro se non l’aria, liquida e cedevole, che facilmente cederebbe se non prevalesse questa parola: «Sia una distesa fra le acque». Tuttavia Mosè non ha apposto all’opera di questo giorno la nota che Dio vide che era cosa buona; forse perché non vi era alcun vantaggio da essa finché le acque terrestri non furono raccolte nel loro luogo proprio, cosa che avvenne il giorno seguente, e perciò lì viene ripetuta due volte.
Versetto 9
*Siano raccolte le acque…* Anche questo è un miracolo illustre: che le acque, ritirandosi, abbiano dato agli uomini un luogo dove abitare. Infatti persino i filosofi ammettono che la posizione naturale delle acque fosse quella di coprire tutta la terra, come Mosè dichiara che avvenne in principio; anzitutto perché, essendo un elemento, deve essere circolare, e perché questo elemento, essendo più pesante dell’aria e più leggero della terra, dovrebbe coprire quest’ultima in tutta la sua circonferenza. Ma che i mari, raccolti come in mucchi, facciano spazio all’uomo, appare come qualcosa di preternaturale; e perciò la Scrittura spesso esalta in modo particolare la bontà di Dio. Si veda il Salmo 33:7: «Egli raccoglie le acque del mare come in un mucchio e ripone gli abissi nei suoi tesori». E anche il Salmo 78:13: «Ha raccolto le acque come in un otre». Geremia 5:22: «Non mi temerete? non tremerete alla mia presenza, io che ho posto la sabbia come confine del mare?» Giobbe 38:8: «Chi ha rinchiuso il mare con porte? Non l’ho forse circondato con porte e sbarre? Ho detto: Fin qui giungerai e non oltre; qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Sappiamo dunque che abitiamo sulla terra asciutta perché Dio, con il suo comando, ha rimosso le acque affinché non inondassero tutta la terra.
Versetto 11
*Produca la terra erba.* Finora la terra era nuda e sterile; ora il Signore la rende feconda mediante la sua parola. Poiché, sebbene fosse già destinata a produrre frutto, tuttavia, finché una nuova virtù non procedette dalla bocca di Dio, doveva rimanere secca e vuota. Infatti non era naturalmente adatta a produrre alcunché, né possedeva da altra fonte un principio di germinazione, finché non si aprì la bocca del Signore. Poiché ciò che Davide dichiara riguardo ai cieli deve essere esteso anche alla terra: che essa fu «fatta dalla parola del Signore ed ornata e provvista dal soffio della sua bocca» (Salmi 33:6). Inoltre, non avvenne per caso che le erbe e gli alberi fossero creati prima del sole e della luna. Ora vediamo, infatti, che la terra è vivificata dal sole affinché produca i suoi frutti; né Dio ignorava questa legge della natura, che egli stesso ha poi stabilito: ma, affinché imparassimo a riferire ogni cosa a lui, allora non si servì del sole né della luna. Egli ci permette di percepire l’efficacia che infonde in essi, nella misura in cui si avvale della loro strumentalità; ma poiché siamo soliti considerare come parte della loro natura proprietà che essi ricevono altrove, era necessario che il vigore che ora sembrano comunicare alla terra fosse manifesto prima che fossero creati. È vero che riconosciamo a parole che la Prima Causa è autosufficiente, e che le cause intermedie e secondarie possiedono solo ciò che ricevono in prestito da questa Prima Causa; ma, in realtà, ci raffiguriamo Dio come povero o imperfetto, se non è assistito da cause seconde. Quanti, infatti, sono quelli che, trattando della fecondità della terra, si elevano al di sopra del sole? Ciò dunque che dichiariamo che Dio ha fatto deliberatamente, era indispensabilmente necessario: affinché imparassimo dall’ordine stesso della creazione che Dio opera mediante le creature, non come se avesse bisogno di un aiuto esterno, ma perché così gli è piaciuto. Quando egli dice: «La terra produca l’erba che faccia seme, l’albero il cui seme è in se stesso», significa non solo che allora furono create le erbe e gli alberi, ma anche che, nello stesso tempo, entrambi furono dotati della facoltà di propagazione, affinché le rispettive specie fossero perpetuate. Poiché dunque vediamo ogni giorno la terra riversare su di noi tali ricchezze dal suo grembo; poiché vediamo le erbe produrre seme, e questo seme accolto e custodito nel seno della terra finché germoglia; e poiché vediamo alberi spuntare da altri alberi; tutto ciò procede dalla medesima Parola. Se dunque ci chiediamo come avvenga che la terra sia feconda, che dal seme nasca il germoglio, che i frutti giungano a maturità e che le loro diverse specie siano riprodotte ogni anno, non si troverà altra causa se non questa: che Dio ha parlato una volta per tutte, cioè ha emanato il suo decreto eterno; e che la terra, e tutte le cose che da essa procedono, obbediscono al comando di Dio, che esse ascoltano sempre.
Versetto 14
*Vi siano dei luminari.* Mosè passa poi al quarto giorno, nel quale furono create le stelle. Dio aveva già creato la luce, ma ora istituisce un nuovo ordine nella natura: che il sole sia il dispensatore della luce diurna, e che la luna e le stelle splendano di notte. E assegna loro questo ufficio per insegnarci che tutte le creature sono soggette alla sua volontà ed eseguono ciò che egli comanda loro. Infatti Mosè non riferisce altro se non che Dio ha stabilito certi strumenti per diffondere sulla terra, mediante mutamenti reciproci, quella luce che era stata creata in precedenza. L’unica differenza è questa: che prima la luce era diffusa, ma ora procede da corpi luminosi; i quali, nel servire a questo scopo, obbediscono al comando di Dio. *Per separare il giorno dalla notte.* Egli intende il giorno artificiale, che comincia al sorgere del sole e termina al suo tramonto. Il giorno naturale (che egli menziona sopra), infatti, include in sé anche la notte. Da ciò si deduce che l’alternarsi dei giorni e delle notti sarà continuo, poiché la parola di Dio, che ha stabilito che i giorni siano distinti dalle notti, dirige a questo fine il corso del sole. «Siano per segni». Occorre ricordare che Mosè non parla con acutezza filosofica di misteri occulti, ma riferisce quelle cose che sono ovunque osservate, anche dai non istruiti, e che sono di uso comune. Dal corso del sole e della luna si percepisce principalmente un duplice vantaggio: l’uno è naturale, l’altro riguarda le istituzioni civili. Sotto il termine natura comprendo anche l’agricoltura. Infatti, sebbene la semina e la mietitura richiedano l’arte e l’industria umane, tuttavia è naturale che il sole, avvicinandosi di più, riscaldi la nostra terra, introduca la stagione primaverile e sia causa dell’estate e dell’autunno. Ma che, per aiutare la memoria, gli uomini computino tra loro anni e mesi; che da questi formino lustri e olimpiadi; che osservino giorni stabiliti: questo, dico, è proprio dell’ordinamento civile. Di entrambe queste cose qui si fa menzione. Devo tuttavia esporre in poche parole la ragione per cui Mosè li chiama segni; perché alcune persone curiose abusano di questo passo per dare colore alle loro frivole predizioni. Io chiamo costoro Caldei e fanatici, che traggono presagi da ogni cosa a partire dagli aspetti delle stelle. Poiché Mosè dichiara che il sole e la luna furono stabiliti come segni, essi pensano di essere autorizzati a ricavarne tutto ciò che vogliono. Ma la confutazione è facile: essi sono chiamati segni di determinate cose, non segni per indicare qualunque cosa secondo la nostra fantasia. Che cosa infatti afferma Mosè essere da essi significato, se non le cose che appartengono all’ordine della natura? Poiché lo stesso Dio che qui istituisce i segni attesta per mezzo di Isaia che «dissiperà i segni degli indovini» (Isaia 44:25) e ci proibisce di essere «spaventati dai segni del cielo» (Geremia 10:2). Ma poiché è manifesto che Mosè non si discosta dall’uso ordinario degli uomini, desisto da una discussione più lunga. La parola מועדים (moadim), che essi traducono «tempi determinati», è intesa in vari modi tra gli Ebrei: infatti significa sia tempo sia luogo, e anche assemblee di persone. I Rabbini comunemente spiegano il passo come riferito alle loro festività. Io però ne estendo il significato più ampiamente, per indicare anzitutto le opportunità del tempo, che in francese si chiamano saisons (stagioni), e poi tutte le fiere e le assemblee giudiziarie. Infine, Mosè ricorda l’infinita bontà di Dio nel far sì che il sole e la luna non solo ci illuminino, ma ci procurino anche vari altri vantaggi per l’uso quotidiano della vita. Resta dunque che noi, godendo con purezza delle molteplici liberalità di Dio, impariamo a non profanare doni così eccellenti con un loro abuso sconsiderato. Nel frattempo, ammiriamo questo meraviglioso Artefice, che ha disposto con tanta bellezza tutte le cose in alto e in basso, affinché rispondano tra loro nel più armonioso concerto.
Versetto 15
*Siano per luci.* È opportuno ripetere ancora ciò che ho detto prima: qui non si discute in modo filosofico quanto grande sia il sole nel cielo, e quanto grande o quanto piccola sia la luna; ma quanta luce giunga a noi da essi. Mosè infatti si rivolge qui ai nostri sensi, affinché la conoscenza dei doni di Dio di cui godiamo non svanisca. Perciò, per comprendere il significato di Mosè, non serve a nulla elevarsi al di sopra dei cieli; apriamo piuttosto gli occhi per contemplare questa luce che Dio accende per noi sulla terra. Con questo metodo (come ho già osservato) è sufficientemente confutata la disonestà di quegli uomini che rimproverano Mosè per non aver parlato con maggiore precisione. Poiché, come si addiceva a un teologo, egli ebbe riguardo a noi piuttosto che alle stelle. Né, in verità, ignorava il fatto che la luna non possiede uno splendore sufficiente a illuminare la terra, se non lo riceve in prestito dal sole; ma ritenne sufficiente dichiarare ciò che tutti possiamo chiaramente percepire, cioè che la luna è per noi dispensatrice di luce. Che essa sia, come affermano gli astronomi, un corpo opaco, lo ammetto come vero, ma nego che sia un corpo oscuro. Infatti, anzitutto, poiché è posta al di sopra dell’elemento del fuoco, deve necessariamente essere un corpo igneo. Ne consegue quindi che è anche luminoso; ma, poiché non ha luce sufficiente per giungere fino a noi, prende in prestito dal sole ciò che le manca. Egli la chiama una luce minore per confronto, perché la porzione di luce che essa emette verso di noi è piccola rispetto all’infinito splendore del sole.
Versetto 16
Ho detto che, parlando della luce maggiore, Mosè non si dilunga qui in sottili speculazioni, come farebbe un filosofo, sui segreti della natura, come si può vedere da queste parole. Anzitutto egli assegna ai pianeti e alle stelle un posto nell’estensione del cielo; ma gli astronomi distinguono le sfere e, nello stesso tempo, insegnano che le stelle fisse hanno la loro sede propria nel firmamento. Mosè fa due grandi luminari; ma gli astronomi dimostrano, con ragioni conclusive, che l’astro di Saturno, il quale a causa della sua grande distanza appare il più piccolo di tutti, è più grande della luna. Qui sta la differenza: Mosè scrisse in uno stile popolare cose che, senza istruzione, tutte le persone comuni, dotate di buon senso, sono in grado di comprendere; mentre gli astronomi indagano con grande fatica tutto ciò che l’acume della mente umana può afferrare. Tuttavia, questo studio non deve essere riprovato, né questa scienza condannata, perché alcuni individui fanatici sono soliti respingere con audacia tutto ciò che è loro ignoto. Infatti l’astronomia non è solo piacevole, ma anche molto utile da conoscere: non si può negare che quest’arte manifesti l’ammirabile sapienza di Dio. Perciò, come devono essere onorati gli uomini ingegnosi che hanno speso un lavoro utile in questo campo, così coloro che hanno tempo e capacità non dovrebbero trascurare questo genere di esercizio. Né Mosè volle davvero distoglierci da tale ricerca, omettendo ciò che è proprio dell’arte; ma poiché egli era stato stabilito maestro tanto degli ignoranti e rozzi quanto dei dotti, non poteva adempiere il suo ufficio se non scendendo a questo metodo di insegnamento più semplice. Se avesse parlato di cose generalmente sconosciute, gli incolti avrebbero potuto addurre come scusa che tali argomenti erano al di sopra delle loro capacità. Infine, poiché qui lo Spirito di Dio apre una scuola comune per tutti, non è sorprendente che egli scelga soprattutto quei soggetti che possono essere compresi da tutti. Se l’astronomo indaga sulle dimensioni reali degli astri, troverà che la luna è più piccola di Saturno; ma ciò è qualcosa di astruso, poiché alla vista appare diversamente. Mosè, dunque, adatta piuttosto il suo discorso all’uso comune. Infatti, poiché il Signore stende, per così dire, la sua mano verso di noi facendoci godere dello splendore del sole e della luna, quanto grande sarebbe la nostra ingratitudine se chiudessimo gli occhi contro la nostra stessa esperienza? Non vi è dunque alcuna ragione per cui dei ciarlieri deridano l’inesperienza di Mosè nel fare della luna il secondo luminare; egli non ci chiama a salire in cielo, ma propone soltanto cose che stanno aperte davanti ai nostri occhi. Gli astronomi possiedano pure la loro conoscenza più elevata; ma, nel frattempo, coloro che percepiscono mediante la luna lo splendore della notte sono convinti, dal suo stesso uso, di perversa ingratitudine se non riconoscono la beneficenza di Dio. Dominare Egli non attribuisce al sole e alla luna un tale dominio da diminuire, neppure in minima parte, la potenza di Dio; ma poiché il sole, in metà del circuito del cielo, governa il giorno, e la luna, a turno, la notte, assegna loro pertanto una sorta di governo. Tuttavia ricordiamo che si tratta di un governo tale per cui il sole rimane pur sempre un servo e la luna una ancella. Nel frattempo respingiamo la fantasticheria di Platone, che attribuisce ragione e intelligenza agli astri. Accontentiamoci di questa semplice esposizione: che Dio governa i giorni e le notti mediante il ministero del sole e della luna, poiché li ha come suoi cocchieri per trasportare una luce adatta alle stagioni.
Versetto 20
*Le acque producano… l’essere vivente che si muove* Nel quinto giorno sono creati gli uccelli e i pesci. Viene aggiunta la benedizione di Dio, affinché essi producano da sé la loro prole. Qui vi è un genere di propagazione diverso da quello delle erbe e degli alberi: là infatti la forza di fruttificare è nelle piante e quella di germinare è nel seme; qui invece ha luogo la generazione. Tuttavia sembra poco conforme alla ragione che egli dichiari che gli uccelli siano proceduti dalle acque; e perciò questo è colto da uomini cavillosi come occasione di calunnia. Ma anche se non apparisse altra ragione se non che così piacque a Dio, non sarebbe forse conveniente per noi acquiescere al suo giudizio? Perché non dovrebbe essere lecito a colui che ha creato il mondo dal nulla far nascere gli uccelli dall’acqua? E quale maggiore assurdità, vi prego, vi è nell’origine degli uccelli dall’acqua rispetto a quella della luce dalle tenebre? Pertanto, coloro che con tanta arroganza assalgono il loro Creatore, attendano il Giudice che li ridurrà al nulla. Nondimeno, se nel confronto dobbiamo servirci di ragionamenti fisici, sappiamo che l’acqua ha maggiore affinità con l’aria di quanta ne abbia la terra. Ma Mosè deve piuttosto essere ascoltato come nostro maestro, lui che intende trasportarci all’ammirazione di Dio attraverso la considerazione delle sue opere. E in verità il Signore, sebbene sia l’Autore della natura, tuttavia nella creazione del mondo non ha affatto seguito la natura come sua guida, ma ha piuttosto scelto di manifestare tali dimostrazioni della sua potenza da costringerci allo stupore.
Versetto 21
E Dio creò Qui sorge una questione dalla parola *creò*. Poiché in precedenza abbiamo sostenuto che, siccome il mondo fu creato, esso fu fatto dal nulla; ora però Mosè dice che furono create cose formate da altra materia. Coloro che affermano, in senso vero e proprio, che i pesci furono creati perché le acque non erano in alcun modo sufficienti o adatte alla loro produzione, ricorrono soltanto a un sotterfugio: infatti rimarrebbe pur sempre il fatto che la materia di cui furono fatti esisteva già prima, cosa che, in stretto rigore, la parola *creare* non ammette. Io quindi non limito la creazione qui menzionata all’opera del quinto giorno, ma ritengo piuttosto che essa si riferisca a quella massa informe e confusa che fu come la fonte di tutto il mondo. Dio dunque, si dice, creò le balene (*balaenas*) e gli altri pesci, non perché l’inizio della loro creazione debba essere fatto risalire al momento in cui ricevettero la loro forma, ma perché essi sono compresi nella materia universale che fu fatta dal nulla. Così, per quanto riguarda le specie, allora fu soltanto aggiunta la forma; tuttavia il termine *creazione* è giustamente usato sia per il tutto sia per le parti. La parola comunemente resa con *balene* (*cetos vel cete*) potrebbe, a mio giudizio, non impropriamente essere tradotta con *thynnus* o tonno, in quanto corrispondente al termine ebraico *thaninim*. Quando dice che «le acque produssero», egli passa a lodare l’efficacia della parola, che le acque ascoltano con tanta prontezza che, pur essendo di per sé prive di vita, all’improvviso pullulano di una prole vivente; tuttavia il linguaggio di Mosè esprime qualcosa di più, vale a dire che innumerevoli pesci sono prodotti ogni giorno dalle acque, perché quella parola di Dio, con la quale egli lo comandò una volta, rimane continuamente in vigore.
Versetto 22
E Dio li benedisse Quale sia la forza di questa benedizione lo dichiara subito. Infatti Dio non prega, alla maniera degli uomini, affinché noi siamo benedetti; ma, con la semplice manifestazione del suo proposito, realizza ciò che gli uomini cercano con suppliche ardenti. Egli dunque benedice le sue creature quando comanda loro di moltiplicarsi e crescere; cioè infonde in esse la fecondità mediante la sua parola. Ma sembra vano che Dio si rivolga a pesci e rettili. Rispondo che questo modo di parlare non è altro che quello che poteva essere facilmente compreso. L’esperienza stessa infatti insegna che la forza della parola che fu rivolta ai pesci non fu transitoria, ma piuttosto, essendo stata infusa nella loro natura, ha messo radice e porta frutto continuamente.
Versetto 24
Scende al sesto giorno, nel quale furono creati gli animali e poi l’uomo. «Produca la terra», dice, «esseri viventi». Ma come può un elemento morto dare vita? Pertanto, sotto questo aspetto, vi è un miracolo non minore di quello che vi sarebbe stato se Dio avesse cominciato a creare dal nulla quelle cose che comandò di procedere dalla terra. E tuttavia egli non trae la sua materia dalla terra perché ne avesse bisogno, ma affinché potesse meglio congiungere le parti separate del mondo con l’universo stesso. Tuttavia si potrebbe domandare perché qui non aggiunga anche la sua benedizione. Rispondo che ciò che Mosè aveva espresso prima in un’occasione simile deve essere qui ugualmente inteso, sebbene egli non lo ripeta parola per parola. Dico inoltre che, per indicare la stessa cosa, è sufficiente che Mosè dichiari che gli animali furono creati «secondo la loro specie»; poiché questa distribuzione portava con sé qualcosa di stabile. Da ciò si può anche inferire che era inclusa la prole degli animali. Infatti, a che scopo esistono specie distinte, se non perché gli individui, secondo i loro diversi generi, possano moltiplicarsi? Bestiame Alcuni degli Ebrei distinguono così tra «bestiame» e «bestie della terra»: il bestiame si nutrirebbe di erba, mentre le bestie della terra sarebbero quelle che mangiano carne. Ma il Signore, poco dopo, assegna le erbe a entrambi come cibo comune; e si può osservare che in diverse parti della Scrittura queste due parole sono usate indifferentemente. In verità, non dubito che Mosè, dopo aver nominato il *Behemoth* (bestiame), abbia aggiunto l’altro termine per una spiegazione più completa. Con «rettili», in questo passo, si intendano quelli che sono di natura terrena.
Versetto 26
*Facciamo l’uomo.* Sebbene il tempo qui usato sia il futuro, tutti devono riconoscere che questo è il linguaggio di chi apparentemente sta deliberando. Finora Dio è stato presentato semplicemente come colui che comanda; ora, quando si accosta alla più eccellente di tutte le sue opere, entra in consultazione. Dio certamente avrebbe potuto comandare con la sola parola ciò che desiderava fosse fatto; ma volle attribuire questo onore all’eccellenza dell’uomo, entrando in qualche modo in consultazione riguardo alla sua creazione. Questo è il più alto onore con cui ci ha dignificati; e a un giusto apprezzamento di esso Mosè, con questo modo di parlare, intendeva stimolare le nostre menti. Infatti Dio non comincia ora per la prima volta a considerare quale forma dare all’uomo e con quali doti sarebbe stato opportuno adornarlo, né si arresta come davanti a un’opera difficile; ma, come abbiamo già osservato, così come la creazione del mondo fu distribuita in sei giorni per amor nostro, affinché le nostre menti potessero più facilmente essere trattenute nella meditazione delle opere di Dio, così ora, allo scopo di raccomandare alla nostra attenzione la dignità della nostra natura, egli, prendendo consiglio circa la creazione dell’uomo, testimonia di stare per intraprendere qualcosa di grande e meraviglioso. In verità vi sono molte cose, in questa natura corrotta, che possono indurre al disprezzo; ma se si ponderano rettamente tutte le circostanze, l’uomo è, tra le altre creature, un certo eminente esempio della sapienza, della giustizia e della bontà divine, tanto che dagli antichi è giustamente chiamato μικρίκοσμος, “un mondo in miniatura”. Ma poiché il Signore non ha bisogno di alcun altro consigliere, non vi è dubbio che abbia consultato se stesso. I Giudei si rendono del tutto ridicoli nel pretendere che Dio abbia comunicato con la terra o con gli angeli. La terra, perbacco, sarebbe stata un consigliere eccellentissimo! E attribuire anche la minima parte di un’opera così squisita agli angeli è un sacrilegio che deve essere tenuto in abominio. Dove, infatti, troveranno che siamo stati creati a immagine della terra o degli angeli? Non esclude forse Mosè direttamente tutte le creature, quando dichiara espressamente che Adamo fu creato a immagine di Dio? Altri, che si ritengono più acuti ma sono doppiamente traviati, dicono che Dio parlò di se stesso al plurale secondo l’uso dei principi. Come se davvero quello stile barbaro di parlare, che è entrato in uso solo in pochi secoli recenti, fosse già allora prevalente nel mondo. Ma è bene che la loro malvagità canina sia stata accompagnata da una così grande stupidità, da tradire la loro follia perfino ai bambini. I cristiani, dunque, giustamente sostengono, da questa testimonianza, che esiste una pluralità di Persone nella Divinità. Dio non convoca alcun consigliere estraneo; perciò inferiamo che egli trova in se stesso qualcosa di distinto; poiché, in verità, la sua eterna sapienza e la sua potenza risiedono in lui. Nella nostra immagine, ecc. Gli interpreti non concordano sul significato di queste parole. La maggior parte, e quasi tutti, ritengono che il termine *immagine* debba essere distinto da *somiglianza*. E la distinzione comunemente accolta è che l’immagine risiede nella sostanza, la somiglianza negli accidenti di una cosa. Coloro che vogliono definire brevemente l’argomento affermano che nell’immagine sono contenuti quei doni che Dio ha conferito alla natura umana in generale, mentre spiegano la somiglianza come doni gratuiti. Ma Agostino, più di tutti gli altri, indulge in speculazioni di eccessiva raffinatezza, allo scopo di costruire una Trinità nell’uomo. Infatti, appropriandosi delle tre facoltà dell’anima enumerate da Aristotele — l’intelletto, la memoria e la volontà — egli in seguito ricava molte Trinità da una sola. Se qualche lettore, avendo tempo libero, desidera compiacersi di tali speculazioni, legga il decimo e il quattordicesimo libro *Sulla Trinità*, nonché l’undicesimo libro della *Città di Dio*. Riconosco, in verità, che nell’uomo vi è qualcosa che si riferisce al Padre, al Figlio e allo Spirito; e non ho difficoltà ad ammettere la suddetta distinzione delle facoltà dell’anima, sebbene la divisione più semplice in due parti, più usata nella Scrittura, sia meglio adatta alla sana dottrina della pietà; ma una definizione dell’immagine di Dio dovrebbe poggiare su un fondamento più solido di tali sottigliezze. Quanto a me, prima di definire l’immagine di Dio, negherei che essa differisca dalla sua somiglianza. Infatti, quando Mosè ripete in seguito le stesse cose, tralascia la somiglianza e si accontenta di menzionare l’immagine. Se qualcuno obiettasse che egli mirava semplicemente alla brevità, rispondo che là dove usa due volte la parola *immagine* non fa alcuna menzione della somiglianza. Sappiamo inoltre che era consuetudine presso gli Ebrei ripetere la stessa cosa con parole diverse. Del resto, la stessa espressione mostra che il secondo termine fu aggiunto a scopo esplicativo: «Facciamo», egli dice, «l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza», cioè affinché sia simile a Dio, o rappresenti l’immagine di Dio. Infine, nel quinto capitolo, senza fare alcuna menzione dell’immagine, pone al suo posto la somiglianza (Genesi 5:1). Benché abbiamo eliminato ogni differenza tra i due termini, non abbiamo ancora stabilito che cosa sia questa immagine o somiglianza. Gli antropomorfiti furono troppo grossolani nel cercare questa somiglianza nel corpo umano; tale fantasticheria resti dunque sepolta. Altri procedono con un po’ più di sottigliezza, i quali, pur non immaginando Dio come corporeo, tuttavia sostengono che l’immagine di Dio sia nel corpo dell’uomo, perché in esso risplende mirabilmente la sua opera; ma questa opinione, come vedremo, non è affatto conforme alla Scrittura. Non è più corretta l’esposizione di Crisostomo, il quale riferisce l’immagine al dominio che fu dato all’uomo affinché, in un certo senso, agisse come vicario di Dio nel governo del mondo. Questo è davvero una parte, sebbene assai piccola, dell’immagine di Dio. Poiché l’immagine di Dio era stata distrutta in noi dalla caduta, possiamo giudicare da ciò che è la sua restaurazione quale fosse originariamente. Paolo dice che siamo trasformati nell’immagine di Dio mediante il Vangelo. E, secondo lui, la rigenerazione spirituale non è altro che la restaurazione della medesima immagine (Colossesi 3:10 ed Efesini 4:23). Che egli abbia fatto consistere questa immagine nella giustizia e nella vera santità è per la figura della sineddoche; poiché, sebbene questa sia la parte principale, non è tuttavia l’intera immagine di Dio. Con questo termine, dunque, è indicata la perfezione della nostra intera natura, così come appariva quando Adamo era dotato di un retto giudizio, aveva affetti in armonia con la ragione, possedeva tutti i sensi sani e ben regolati, ed eccelleva veramente in ogni bene. Così la sede principale dell’immagine divina era nella sua mente e nel suo cuore, dove essa risplendeva in modo eminente; tuttavia non vi era parte di lui nella quale non brillassero alcune scintille di essa. Vi era infatti un’armonizzazione nelle varie parti dell’anima, corrispondente ai loro diversi uffici. Nella mente fioriva e regnava una perfetta intelligenza, la rettitudine l’accompagnava come compagna, e tutti i sensi erano predisposti e formati per una debita obbedienza alla ragione; e nel corpo vi era una conveniente corrispondenza con questo ordine interno. Ma ora, sebbene in noi si trovino ancora alcuni oscuri lineamenti di quell’immagine, essi sono tuttavia così corrotti e mutilati che si può davvero dire che siano distrutti. Infatti, oltre alla deformità che ovunque appare ripugnante, si aggiunge anche questo male: che nessuna parte è libera dall’infezione del peccato. «A nostra immagine, secondo la nostra somiglianza». Non insisto scrupolosamente sulle particelle ב (beth) e כ (caph). Non so se vi sia qualcosa di solido nell’opinione di alcuni che sostengono che ciò sia detto perché l’immagine di Dio sarebbe stata solo adombrata nell’uomo finché egli non fosse giunto alla sua perfezione. La cosa, in effetti, è vera; ma non credo che nulla di simile sia entrato nella mente di Mosè. È anche vero che Cristo è l’unica immagine del Padre; tuttavia le parole di Mosè non ammettono l’interpretazione secondo cui “a immagine” significherebbe “in Cristo”. Si può inoltre aggiungere che anche l’uomo, sebbene in senso diverso, è chiamato immagine di Dio. In questo punto alcuni dei Padri si sono ingannati, ritenendo di poter confutare gli Ariani con quest’arma, sostenendo che Cristo soltanto è l’immagine di Dio. Vi è poi un’ulteriore difficoltà da affrontare: perché Paolo nega che la donna sia immagine di Dio, mentre Mosè onora entrambi, senza distinzione, con questo titolo? La soluzione è breve: Paolo lì allude soltanto al rapporto domestico. Egli quindi restringe l’immagine di Dio al governo, nel quale l’uomo ha superiorità sulla moglie, e certamente non intende altro se non che l’uomo è superiore nel grado di onore. Qui invece la questione riguarda quella gloria di Dio che risplende in modo peculiare nella natura umana, dove la mente, la volontà e tutti i sensi rappresentano l’ordine divino. «E abbiano dominio». Qui egli ricorda quella parte della dignità con la quale decretò di onorare l’uomo, cioè che avesse autorità su tutte le creature viventi. È vero che egli stabilì l’uomo come signore del mondo; ma sottomette espressamente a lui gli animali, perché essi, avendo una loro inclinazione o istinto, sembrano essere meno soggetti a un’autorità esterna. L’uso del numero plurale indica che questa autorità non fu concessa soltanto ad Adamo, ma anche a tutta la sua discendenza. Da qui inferiamo quale fu il fine per cui tutte le cose furono create: che agli uomini non mancasse nulla di ciò che è utile e necessario alla vita. Nell’ordine stesso della creazione è evidente la sollecitudine paterna di Dio verso l’uomo, poiché egli fornì il mondo di tutte le cose necessarie, e persino di un’immensa abbondanza di ricchezze, prima di formare l’uomo. Così l’uomo fu ricco prima di nascere. Ma se Dio ebbe tale cura di noi prima che esistessimo, non ci lascerà affatto privi di cibo e delle altre necessità della vita, ora che siamo stati posti nel mondo. Se tuttavia spesso sembra tenere la mano come chiusa, ciò va imputato ai nostri peccati.
Versetto 27
Così Dio creò l’uomo. La reiterata menzione dell’immagine di Dio non è una ripetizione vana, poiché è un notevole esempio della bontà divina, che non potrà mai essere proclamata abbastanza. E, nello stesso tempo, egli ci ammonisce da quale eccellenza siamo caduti, affinché susciti in noi il desiderio di recuperarne la pienezza. Quando subito dopo aggiunge che Dio li creò maschio e femmina, ci raccomanda quel vincolo coniugale mediante il quale viene custodita la società del genere umano. Infatti questo modo di parlare, “Dio creò l’uomo; maschio e femmina li creò”, ha lo stesso valore come se avesse detto che l’uomo, da solo, era incompleto. In queste circostanze, la donna gli fu aggiunta come compagna affinché entrambi fossero uno solo, come egli esprime più chiaramente nel secondo capitolo. Anche Malachia intende la stessa cosa quando riferisce (Genesi 2:15) che un solo uomo fu creato da Dio, mentre tuttavia possedeva la pienezza dello Spirito. Egli infatti tratta lì della fedeltà coniugale, che i Giudei violavano mediante la loro poligamia. Allo scopo di correggere questo difetto, chiama “un solo uomo” quella coppia, costituita da uomo e donna, che Dio all’inizio aveva congiunto insieme, affinché ciascuno imparasse ad accontentarsi della propria moglie.
Versetto 28
E Dio li benedisse. Questa benedizione di Dio può essere considerata come la fonte dalla quale è scaturita la stirpe umana. E dobbiamo intenderla così non solo con riferimento al tutto, ma anche, come si suol dire, in ogni singolo caso. Infatti siamo fecondi o sterili quanto alla prole, a seconda che Dio comunichi la sua potenza ad alcuni e la neghi ad altri. Ma qui Mosè intende semplicemente dichiarare che Adamo con sua moglie fu formato per la produzione della prole, affinché gli uomini popolassero la terra. Dio avrebbe potuto, certo, ricoprire egli stesso la terra di una moltitudine di uomini; ma fu sua volontà che noi procedessimo da un’unica fonte, affinché fosse maggiore il nostro desiderio di reciproca concordia, e affinché ciascuno potesse tanto più liberamente abbracciare l’altro come propria carne. Inoltre, come gli uomini furono creati per abitare la terra, così dobbiamo certamente concludere che Dio ha delimitato, quasi tracciandone il confine, quello spazio di terra che sarebbe stato sufficiente ad accogliere gli uomini e a costituire per loro una dimora adatta. Ogni disuguaglianza che sia contraria a questo ordinamento non è altro che una corruzione della natura che procede dal peccato. Nel frattempo, tuttavia, la benedizione di Dio prevale a tal punto che la terra ovunque rimane aperta perché abbia i suoi abitanti, e che una moltitudine immensa di uomini possa trovare, in qualche parte del globo, la propria dimora. Ora, quanto ho detto riguardo al matrimonio deve essere tenuto presente: Dio intende che il genere umano sia moltiplicato mediante la generazione, ma non, come negli animali bruti, mediante un commercio promiscuo. Infatti egli ha unito l’uomo alla sua moglie affinché producessero una discendenza divina, cioè legittima. Notiamo dunque a chi Dio qui si rivolge quando comanda di crescere, e a chi limita la sua benedizione. Certamente egli non scioglie le redini alle passioni umane, ma, iniziando dal matrimonio santo e casto, passa a parlare della produzione della prole. È inoltre degno di nota che Mosè qui accenni brevemente a un argomento che in seguito intende spiegare più ampiamente, e che l’ordine regolare della narrazione sia invertito, ma in modo tale da rendere evidente la vera successione degli eventi. Si pone tuttavia la questione se fornicatori e adulteri diventino fecondi per la potenza di Dio; e, se ciò è vero, se allora la benedizione di Dio si estenda allo stesso modo anche a loro. Rispondo che questa è una corruzione dell’istituzione divina; e sebbene Dio produca prole da questa pozza fangosa così come dalla pura fonte del matrimonio, ciò servirà alla loro maggiore distruzione. Rimane tuttavia saldo quel metodo puro e legittimo di accrescimento che Dio ha stabilito fin dal principio: questa è quella legge di natura che il buon senso dichiara inviolabile. Soggiogatela. Egli conferma quanto aveva già detto riguardo al dominio. L’uomo era già stato creato con questa condizione: che sottomettesse a sé la terra; ma ora, finalmente, viene messo in possesso del suo diritto, quando ode ciò che il Signore gli ha concesso. E questo Mosè lo esprime ancora più chiaramente nel versetto seguente, quando introduce Dio che gli concede le erbe e i frutti. Infatti è di grande importanza che non tocchiamo nulla della bontà di Dio se non ciò che sappiamo egli ci ha permesso; poiché non possiamo godere di nulla con buona coscienza, se non lo riceviamo come dalla mano di Dio. E perciò Paolo ci insegna che, nel mangiare e nel bere, pecchiamo sempre, se non è presente la fede (Romani 14:23). Così siamo istruiti a cercare da Dio solo tutto ciò che ci è necessario e, nell’uso stesso dei suoi doni, ad esercitarci nella meditazione della sua bontà e della sua cura paterna. Poiché le parole di Dio hanno questo senso: «Ecco, ho preparato il cibo per te prima che tu fossi formato; riconoscimi dunque come tuo Padre, che ho provveduto con tanta diligenza a te quando ancora non eri stato creato. Inoltre, la mia sollecitudine per te è andata ancora oltre: spettava a te nutrire le cose che ti erano state provvedute, ma io ho assunto anche questo compito. Perciò, sebbene tu sia in un certo senso costituito padre della famiglia terrestre, non sta a te essere eccessivamente ansioso per il sostentamento degli animali». Alcuni deducono da questo passo che gli uomini si accontentassero di erbe e frutti fino al diluvio, e che fosse addirittura loro illecito mangiare carne. E ciò sembra tanto più probabile in quanto Dio, in qualche modo, circoscrive il nutrimento dell’umanità entro certi limiti. Poi, dopo il diluvio, concede loro espressamente l’uso della carne. Queste ragioni, tuttavia, non sono sufficientemente forti; poiché si può addurre, in senso contrario, che i primi uomini offrivano sacrifici tratti dai loro greggi. Inoltre, questa è la legge del sacrificare rettamente: non offrire a Dio nulla se non ciò che egli ci ha concesso per il nostro uso. Infine, gli uomini erano vestiti di pelli; dunque era loro lecito uccidere animali. Per queste ragioni, ritengo che sia meglio per noi non affermare nulla di definitivo su questa materia. Ci basti sapere che le erbe e i frutti degli alberi furono loro dati come cibo comune; tuttavia non vi è dubbio che ciò fosse ampiamente sufficiente per la loro massima soddisfazione. Infatti giudicano con saggezza coloro che sostengono che la terra fu talmente guastata dal diluvio, che noi conserviamo appena una porzione moderata della benedizione originaria. Già immediatamente dopo la caduta dell’uomo, essa aveva cominciato a produrre frutti degeneri e nocivi, ma con il diluvio il mutamento divenne ancora maggiore. Comunque stiano le cose, Dio certamente non intendeva che l’uomo fosse mantenuto in modo misero e scarso; anzi, con queste parole promette un’abbondanza generosa, tale da non lasciare mancare nulla a una vita dolce e piacevole. Poiché Mosè racconta quanto fosse stato benefico il Signore verso di loro, nel concedere loro tutte le cose che potevano desiderare, affinché la loro ingratitudine avesse tanto meno scusa.
Versetto 31
E Dio vide ogni cosa Ancora una volta, alla conclusione della creazione, Mosè dichiara che Dio approvò tutto ciò che aveva fatto. Nel parlare di Dio come di colui che vede, egli si esprime alla maniera degli uomini; poiché il Signore volle che questo suo giudizio fosse per noi una regola e un esempio, affinché nessuno osi pensare o parlare diversamente delle sue opere. Non ci è infatti lecito discutere se debba essere approvato o no ciò che Dio ha già approvato; ma piuttosto ci conviene acconsentire senza controversia. La ripetizione indica anche quanto sia sfrenata la temerarietà dell’uomo: altrimenti sarebbe stato sufficiente dire, una volta per tutte, che Dio approvò le sue opere. Ma Dio inculca per sei volte la stessa cosa, affinché freni, come con altrettanti morsi, la nostra inquieta audacia. Mosè però esprime qui più che prima; infatti aggiunge מאד (meod), cioè “molto”. In ciascuno dei giorni era stata data una semplice approvazione; ma ora, dopo che l’opera del mondo fu compiuta in tutte le sue parti e, per così dire, ricevette l’ultimo tocco finale, egli la dichiara perfettamente buona, affinché sappiamo che nella simmetria delle opere di Dio vi è la massima perfezione, alla quale nulla può essere aggiunto.
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Poiché l’infinita sapienza di Dio si manifesta nella mirabile struttura del cielo e della terra, è assolutamente impossibile esporre la Storia della Creazione del Mondo con parole adeguate alla sua dignità. Infatti, mentre la misura della nostra capacità è troppo ristretta per comprendere realtà di tale grandezza, la nostra lingua è ugualmente incapace di renderne un resoconto pieno e sostanziale. Tuttavia, come merita lode colui che, con modestia e riverenza, si applica alla considerazione delle opere di Dio, anche se raggiunge meno di quanto si potrebbe desiderare, così, se in questo genere di impegno io mi sforzo di aiutare gli altri secondo la capacità che mi è stata concessa, confido che il mio servizio sarà approvato non meno dagli uomini pii che accetto da Dio.
Ho scelto di premettere queste considerazioni non solo per giustificarmi, ma anche per ammonire i miei lettori: se desiderano sinceramente trarre profitto insieme a me dalla meditazione sulle opere di Dio, devono accostarsi ad esse con uno spirito sobrio, docile, mite e umile. In verità, vediamo il mondo con i nostri occhi, calpestiamo la terra con i nostri piedi, tocchiamo con le nostre mani innumerevoli specie delle opere di Dio, inaliamo una fragranza dolce e soave da erbe e fiori, godiamo di benefici senza misura; ma proprio in quelle stesse cose di cui giungiamo ad avere qualche conoscenza, risiede una tale immensità di potenza, bontà e sapienza divina da assorbire tutti i nostri sensi.
Pertanto, gli uomini si accontentino se ne ottengono solo un assaggio moderato, proporzionato alla loro capacità. E conviene che tendiamo a questo traguardo per tutta la nostra vita, in modo tale che, anche in età molto avanzata, non ci pentiremo dei progressi compiuti, purché siamo avanzati, anche di pochissimo, nel nostro cammino.
L’intenzione di Mosè, nel cominciare il suo Libro con la creazione del mondo, è quella di rendere Dio, per così dire, visibile a noi nelle sue opere. Ma qui sorgono uomini presuntuosi che, con scherno, domandano: da dove fu rivelato questo a Mosè? Essi quindi suppongono che egli parli favolosamente di cose sconosciute, perché non fu né spettatore degli eventi che narra, né apprese la loro verità mediante la lettura. Questo è il loro ragionamento; ma la loro disonestà è facilmente smascherata. Infatti, se possono distruggere la credibilità di questa storia perché risale a una lunga serie di epoche passate, provino allora anche che sono false quelle profezie nelle quali la medesima storia predice eventi che non ebbero luogo se non molti secoli dopo. Io affermo che sono chiare ed evidenti le cose che Mosè attesta riguardo alla vocazione dei Gentili, il cui compimento avvenne quasi duemila anni dopo la sua morte. Colui che, mediante lo Spirito, previde un evento lontano nel futuro e, al tempo, nascosto alla percezione degli uomini, non era forse capace di comprendere se il mondo fosse stato creato da Dio, soprattutto considerando che era istruito da un Maestro divino? Egli infatti non propone qui divinazioni proprie, ma è strumento dello Spirito Santo per la pubblicazione di quelle cose che era importante che tutti gli uomini conoscessero. Essi sbagliano gravemente nel ritenere assurdo che l’ordine della creazione, prima sconosciuto, sia stato infine da lui descritto e spiegato. Poiché egli non trasmette alla memoria cose mai udite prima, ma per la prima volta affida alla scrittura fatti che i padri avevano tramandato di mano in mano, attraverso una lunga successione di anni, ai loro figli. Possiamo forse concepire che l’uomo fosse posto sulla terra senza conoscere la propria origine e l’origine delle cose di cui godeva? Nessuna persona sana di mente dubita che Adamo fosse ben istruito riguardo a tutte queste cose. Divenne forse poi muto? I santi Patriarchi furono così ingrati da sopprimere nel silenzio un’istruzione tanto necessaria? Noè, ammonito da un giudizio divino così memorabile, trascurò forse di trasmetterlo alla posterità? Abramo è espressamente onorato con questo elogio, che fu il maestro e la guida della sua famiglia (Genesi 18:19). E sappiamo che, molto prima del tempo di Mosè, la conoscenza dell’alleanza nella quale Dio era entrato con i loro padri era comune a tutto il popolo. Quando egli dice che gli Israeliti provenivano da una stirpe santa, che Dio aveva scelto per sé, non lo propone come qualcosa di nuovo, ma si limita a ricordare ciò che tutti ritenevano vero, ciò che gli stessi anziani avevano ricevuto dai loro antenati e che, in breve, era del tutto incontestato tra loro. Pertanto, non dobbiamo dubitare che la Creazione del mondo, così come qui descritta, fosse già conosciuta attraverso l’antica e continua tradizione dei Padri. Tuttavia, poiché nulla è più facile che la verità di Dio venga così corrotta dagli uomini da degenerare, per così dire, da se stessa nel corso di una lunga successione di tempi, piacque al Signore affidare la storia alla scrittura, allo scopo di conservarne la purezza. Mosè, dunque, ha stabilito la credibilità di quella dottrina che è contenuta nei suoi scritti e che, per la negligenza degli uomini, avrebbe altrimenti potuto andare perduta.
Ora ritorno al disegno di Mosè, o piuttosto dello Spirito Santo, che ha parlato per la sua bocca. Conosciamo Dio, che è in se stesso invisibile, solo attraverso le sue opere. Perciò l’Apostolo chiama elegantemente i mondi, τὰ μὴ ἐκ φαινομένων βλεπόμενα, come se dicesse: «la manifestazione di cose non apparenti» (Ebrei 11:3). Questa è la ragione per cui il Signore, affinché ci inviti alla conoscenza di sé, pone davanti ai nostri occhi la struttura del cielo e della terra, rendendosi in un certo modo manifesto in essi. Infatti, la sua eterna potenza e divinità (come dice Paolo) vi sono chiaramente esibite (Romani 1:20). Ed è verissima quella dichiarazione di Davide, secondo cui i cieli, pur senza lingua, sono tuttavia eloquenti araldi della gloria di Dio, e questo ordine bellissimo della natura proclama silenziosamente la sua mirabile sapienza (Salmo 19:1).
Ciò deve essere osservato con maggiore diligenza, poiché sono pochissimi quelli che seguono il giusto metodo di conoscere Dio, mentre la maggior parte si attacca alle creature senza alcuna considerazione del Creatore stesso. Gli uomini infatti sono comunemente soggetti a due estremi: alcuni, dimentichi di Dio, applicano tutta la forza della loro mente alla considerazione della natura; altri, trascurando le opere di Dio, aspirano con una curiosità stolta e folle a investigare la sua Essenza. Entrambi faticano invano. Occuparsi così intensamente nell’indagine dei segreti della natura da non volgere mai gli occhi al suo Autore è uno studio del tutto perverso; e godere di tutto ciò che è nella natura senza riconoscere l’Autore del beneficio è la più vile ingratitudine.
Perciò coloro che pretendono di essere filosofi senza Religione e che, mediante le loro speculazioni, agiscono in modo da allontanare da sé Dio e ogni senso di pietà, un giorno sentiranno la forza dell’espressione di Paolo, riferita da Luca, secondo cui Dio non ha mai lasciato se stesso senza testimonianza (Atti 14:17). Essi infatti non saranno autorizzati a sfuggire impunemente, poiché sono stati sordi e insensibili a testimonianze tanto illustri. E in verità, è segno di colpevole ignoranza non vedere mai Dio, che ovunque dà segni della sua presenza. Ma se ora gli schernitori riescono a sottrarsi con le loro cavillosità, in seguito la loro terribile distruzione renderà testimonianza del fatto che essi furono ignoranti di Dio solo perché volontariamente e maliziosamente accecati.
Quanto a coloro che, con orgoglio, si innalzano al di sopra del mondo per cercare Dio nella sua essenza svelata, è impossibile che alla fine non si aggroviglino in una moltitudine di fantasie assurde. Infatti Dio — altrimenti invisibile (come abbiamo già detto) — si riveste, per così dire, dell’immagine del mondo nel quale vuole presentarsi alla nostra contemplazione. Coloro che non si degnano di contemplarlo così magnificamente adorno nell’incomparabile veste dei cieli e della terra, subiscono poi la giusta punizione del loro superbo disprezzo nelle proprie fantasticherie.
Pertanto, non appena il nome di Dio risuona alle nostre orecchie o il pensiero di lui si presenta alla nostra mente, rivestiamolo anche di questo ornamento bellissimo; infine, se desideriamo conoscere rettamente Dio, facciamo del mondo la nostra scuola.
Anche qui viene confutata l’empietà di coloro che cavillano contro Mosè, per il fatto che egli riferisce che dalla Creazione del mondo fosse trascorso uno spazio di tempo così breve. Essi infatti si chiedono perché fosse venuto così improvvisamente in mente a Dio di creare il mondo; perché fosse rimasto così a lungo inattivo in cielo: e così, scherzando con le cose sacre, esercitano il loro ingegno a propria rovina. Nella *Storia Tripartita* è registrata una risposta data da un uomo pio, che mi è sempre piaciuta. Poiché, quando un certo cane impuro riversava in questo modo il suo scherno contro Dio, egli ribatté che Dio, in quel tempo, non era affatto inattivo, poiché stava preparando l’inferno per i cavillosi. Ma con quali correttivi si può frenare l’arroganza di uomini per i quali la sobrietà è dichiaratamente spregevole e odiosa? E certamente coloro che ora esultano così liberamente nel trovare difetti nell’inattività di Dio scopriranno, a loro grandissimo costo, che la sua potenza è stata infinita nel preparare l’inferno per loro.
Quanto a noi, non dovrebbe sembrarci così assurdo che Dio, appagato in se stesso, non abbia creato un mondo di cui non aveva bisogno prima di quanto gli parve opportuno. Inoltre, poiché la sua volontà è la regola di ogni sapienza, dobbiamo accontentarci di essa soltanto. Infatti Agostino afferma giustamente che i Manichei fanno ingiustizia a Dio, perché esigono una causa superiore alla sua volontà; ed egli avverte prudentemente i suoi lettori di non spingere le loro indagini riguardo all’infinità della durata più di quanto non le spingano riguardo all’infinità dello spazio.
Noi infatti non ignoriamo che il circuito dei cieli è finito e che la terra, come un piccolo globo, è posta al centro. Coloro che si risentono del fatto che il mondo non sia stato creato prima, potrebbero altrettanto bene rimproverare Dio per non aver creato innumerevoli mondi. Anzi, poiché ritengono assurdo che molte età siano trascorse senza alcun mondo, dovrebbero piuttosto riconoscere che ciò è una prova della grande corruzione della loro stessa natura: poiché, in confronto all’immensa distesa che rimane vuota, il cielo e la terra occupano solo un piccolo spazio. Ma poiché sia l’eternità dell’esistenza di Dio sia l’infinità della sua gloria costituirebbero un duplice labirinto, accontentiamoci di desiderare con modestia di non procedere nelle nostre indagini oltre il punto in cui il Signore, mediante la guida e l’insegnamento delle sue stesse opere, ci invita a farlo.
Ora, nel descrivere il mondo come uno specchio nel quale dovremmo contemplare Dio, non intendo affermare né che i nostri occhi siano abbastanza acuti da discernere ciò che l’ordine del cielo e della terra rappresenta, né che la conoscenza che se ne può trarre sia sufficiente per la salvezza. E sebbene il Signore ci inviti a sé mediante le cose create, con il solo effetto di renderci così inescusabili, egli ha aggiunto (come era necessario) un nuovo rimedio, o almeno, con un nuovo aiuto, ha soccorso l’ignoranza della nostra mente. Infatti, mediante la Scrittura come nostra guida e maestra, egli non solo rende manifeste cose che altrimenti ci sfuggirebbero, ma quasi ci costringe a contemplarle; come se avesse soccorso la nostra vista ottusa con degli occhiali.
Su questo punto (come abbiamo già osservato) insiste Mosè. Poiché, se l’insegnamento muto del cielo e della terra fosse stato sufficiente, l’insegnamento di Mosè sarebbe stato superfluo. Si presenta dunque questo araldo, che desta la nostra attenzione affinché ci rendiamo conto di essere stati posti in questo scenario allo scopo di contemplare la gloria di Dio; non certo per osservarle come semplici testimoni, ma per godere di tutte le ricchezze che qui sono esibite, come il Signore le ha ordinate e sottomesse al nostro uso. Ed egli non si limita a dichiarare in modo generale che Dio è l’artefice del mondo, ma, lungo l’intera trama della storia, mostra quanto siano ammirevoli la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà e, soprattutto, la sua tenera sollecitudine per il genere umano.
Inoltre, poiché la Parola eterna di Dio è l’immagine viva ed espressa di se stesso, egli ci riconduce a questo punto. E così si verifica l’affermazione dell’Apostolo, che solo mediante la fede si può comprendere che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio (Ebrei 11:3). Poiché la fede propriamente nasce da questo: che, istruiti dal ministero di Mosè, non vaghiamo più in speculazioni stolte e frivole, ma contempliamo il vero e unico Dio nella sua immagine genuina.
Si potrebbe tuttavia obiettare che ciò sembra essere in contrasto con quanto dichiara Paolo:
«Poiché, nella sapienza di Dio, il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare quelli che credono mediante la follia della predicazione» (1 Corinzi 1:21).
Poiché egli così lascia intendere che Dio è cercato invano sotto la guida delle cose visibili; e che non ci resta altro se non ritirarci immediatamente a Cristo; e che quindi non dobbiamo cominciare dagli elementi di questo mondo, ma dal Vangelo, che ci pone davanti Cristo solo con la sua croce e ci mantiene fermi su questo unico punto. Rispondo: è vano che qualcuno ragioni da filosofo sull’opera del mondo, se non coloro che, essendo stati prima umiliati dalla predicazione del Vangelo, hanno imparato a sottomettere tutta la loro sapienza intellettuale (come si esprime Paolo) alla follia della croce (1 Corinzi 1:21). Nulla troveremo, dico, né in alto né in basso, che possa elevarci a Dio, finché Cristo non ci abbia istruiti nella sua stessa scuola. Tuttavia ciò non può avvenire, se non quando noi, usciti dalle più profonde voragini, siamo portati al di sopra di tutti i cieli, nel carro della sua croce, affinché là, mediante la fede, possiamo afferrare quelle cose che occhio non ha mai visto, orecchio non ha mai udito e che superano di gran lunga il nostro cuore e la nostra mente.
Infatti, non è la terra, con la sua provvista di frutti per il nostro nutrimento quotidiano, che ci viene lì presentata; ma Cristo offre se stesso a noi per la vita eterna. Né il cielo, con lo splendore del sole e delle stelle, illumina i nostri occhi corporei, ma lo stesso Cristo, la Luce del mondo e il Sole di giustizia, risplende nelle nostre anime; né l’aria distende per noi il suo spazio vuoto perché possiamo respirare, ma lo Spirito di Dio stesso ci vivifica e ci fa vivere. Lì, in breve, il regno invisibile di Cristo riempie ogni cosa, e la sua grazia spirituale si diffonde ovunque.
Ciò nondimeno, questo non ci impedisce di applicare i nostri sensi alla considerazione del cielo e della terra, affinché da essi cerchiamo una conferma nella vera conoscenza di Dio. Poiché Cristo è quell’immagine nella quale Dio pone davanti ai nostri occhi non solo il suo cuore, ma anche le sue mani e i suoi piedi. Chiamo suo cuore quell’amore segreto con cui ci abbraccia in Cristo; con le sue mani e i suoi piedi intendo quelle sue opere che sono esposte alla nostra vista. Non appena ci allontaniamo da Cristo, non c’è nulla, per quanto grossolano o insignificante in sé, riguardo al quale non siamo necessariamente ingannati.
E, in effetti, sebbene Mosè, in questo Libro, inizi con la creazione del mondo, tuttavia non ci limita a questo argomento. Infatti, queste cose devono essere connesse tra loro: che il mondo è stato fondato da Dio e che l’uomo, dopo essere stato dotato della luce dell’intelligenza e adornato di tanti privilegi, è caduto per propria colpa ed è stato così privato di tutti i benefici che aveva ottenuto; poi, per la compassione di Dio, è stato restaurato alla vita che aveva perduto, e ciò mediante la benevolenza di Cristo; affinché vi fosse sempre sulla terra qualche assemblea che, adottata nella speranza della vita celeste, potesse in questa fiducia adorare Dio.
Il fine a cui tende l’intero corso della storia è questo: mostrare che il genere umano è stato preservato da Dio in modo tale da manifestare la sua particolare cura per la sua Chiesa. Questo infatti è l’argomento del libro: dopo che il mondo fu creato, l’uomo vi fu posto come in un teatro, affinché, contemplando sopra di sé e sotto di sé le meravigliose opere di Dio, potesse adorare con riverenza il loro Autore. In secondo luogo, che tutte le cose furono ordinate per l’uso dell’uomo, affinché egli, essendo sotto un obbligo più profondo, si dedicasse e si consacrasse interamente all’obbedienza verso Dio. In terzo luogo, che egli fu dotato di intelletto e di ragione, affinché, distinto dagli animali bruti, meditasse su una vita migliore e potesse persino tendere direttamente verso Dio, la cui immagine portava impressa nella propria persona.
In seguito venne la caduta di Adamo, mediante la quale egli si alienò da Dio; da ciò derivò che fu privato di ogni rettitudine. Così Mosè rappresenta l’uomo come privo di ogni bene, accecato nell’intelligenza, perverso nel cuore, corrotto in ogni parte e sottoposto alla sentenza di morte eterna; ma subito aggiunge la storia della sua restaurazione, nella quale Cristo risplende con il beneficio della redenzione. Da questo punto in poi egli non solo narra in modo continuo la singolare Provvidenza di Dio nel governare e preservare la Chiesa, ma ci raccomanda anche il vero culto di Dio; insegna in che cosa consista la salvezza dell’uomo ed esorta, dall’esempio dei Padri, alla costanza nel sopportare la croce.
Chiunque dunque desideri trarre un profitto adeguato da questo libro, applichi la sua mente a questi temi principali. Ma soprattutto osservi che, sebbene Adamo con la sua rovinosa caduta abbia distrutto se stesso e tutta la sua posterità, questo è il fondamento della nostra salvezza, questa l’origine della Chiesa: che noi, tratti fuori da una profonda oscurità, abbiamo ottenuto una nuova vita per la sola grazia di Dio; che i Padri (secondo l’offerta fatta loro mediante la parola di Dio) sono resi partecipi di questa vita mediante la fede; che questa stessa parola era fondata su Cristo; e che tutti i pii che sono vissuti in seguito sono stati sostenuti dalla medesima promessa di salvezza mediante la quale Adamo fu per la prima volta rialzato dalla sua caduta.
Pertanto, la successione perpetua della Chiesa è scaturita da questa fonte: che i santi Padri, uno dopo l’altro, avendo per fede accolto la promessa offerta, furono raccolti insieme nella famiglia di Dio, affinché avessero una vita comune in Cristo. Questo dobbiamo considerarlo con grande attenzione, per sapere quale sia la società della vera Chiesa e quale la comunione della fede tra i figli di Dio. Poiché Mosè fu costituito Maestro degli Israeliti, non vi è dubbio che egli avesse un riferimento particolare a loro, affinché si riconoscessero come un popolo eletto e scelto da Dio; e affinché cercassero la certezza di questa adozione nel Patto che il Signore aveva ratificato con i loro padri, e sapessero che non vi era altro Dio né altra retta fede. Ma fu anche sua volontà testimoniare a tutte le età che chiunque desideri adorare Dio rettamente ed essere considerato membro della Chiesa non deve seguire altra via se non quella che qui è prescritta.
Ora, come questo è l’inizio della fede — conoscere che vi è un solo vero Dio che noi adoriamo — così non è una conferma ordinaria di questa fede il fatto che siamo compagni dei Patriarchi; poiché, come essi possedettero Cristo come pegno della loro salvezza quando egli non era ancora apparso, così noi conserviamo il Dio che un tempo si manifestò a loro. Da ciò possiamo dedurre la differenza tra il culto puro e legittimo di Dio e tutti quei servizi adulterati che in seguito sono stati fabbricati dall’inganno di Satana e dalla perversa audacia degli uomini.
Inoltre, deve essere considerato il governo della Chiesa, affinché il lettore giunga alla conclusione che Dio ne è stato il Custode e il Sovrano perpetuo, ma in modo tale da esercitarla nella milizia della croce. Qui, in verità, si presentano allo sguardo i conflitti peculiari della Chiesa, o piuttosto il corso stesso è posto davanti ai nostri occhi come in uno specchio, nel quale conviene che noi, insieme ai santi Padri, tendiamo alla meta di una beata immortalità.
Ascoltiamo ora Mosè.
Versetto 1
In principio. Spiegare il termine “principio” riferendolo a Cristo è del tutto frivolo. Mosè infatti intende semplicemente affermare che il mondo non fu portato a compimento fin dal suo primissimo inizio nel modo in cui ora lo vediamo, ma che fu creato come un caos vuoto di cielo e di terra. Il suo linguaggio può dunque essere spiegato così: quando Dio in principio creò il cielo e la terra, la terra era vuota e desolata. Inoltre egli insegna, mediante la parola “creò”, che ciò che prima non esisteva ora fu fatto; infatti non usa il termine יצר (*yatsar*), che significa plasmare o formare, ma ברא (*bara*), che significa creare. Il suo significato, dunque, è che il mondo fu fatto dal nulla. Ne consegue che è confutata la stoltezza di coloro che immaginano che una materia informe sia esistita dall’eternità e che non ricavano altro dal racconto di Mosè se non che il mondo fu ornato di nuovi abbellimenti e ricevette una forma di cui prima era privo. Questa fu un tempo una favola comune tra i pagani, i quali avevano ricevuto solo un racconto oscuro della creazione e che, secondo il loro costume, adulteravano la verità di Dio con fantasie estranee; ma che uomini cristiani si affatichino (come fa Steuco) nel sostenere un errore così grossolano è assurdo e intollerabile. Si mantenga dunque innanzitutto questo: che il mondo non è eterno, ma fu creato da Dio. Non vi è dubbio che Mosè dia il nome di cielo e di terra a quella massa confusa che poco dopo (Genesi 1:2) chiama acque. La ragione è che questa materia doveva essere il seme di tutto il mondo. Inoltre, questa è la divisione del mondo generalmente riconosciuta. Dio. Mosè lo chiama Elohim, un sostantivo di numero plurale. Da ciò si trae l’inferenza che qui siano indicati le tre Persone della Divinità; ma poiché, come prova di una questione tanto grande, ciò mi sembra avere poca solidità, non insisterò sulla parola; anzi, metterò in guardia i lettori dal diffidare di glosse forzate di questo genere. Essi pensano di avere una testimonianza contro gli Ariani, per dimostrare la divinità del Figlio e dello Spirito; ma nel frattempo si coinvolgono nell’errore di Sabellio, perché Mosè aggiunge subito dopo che gli Elohim avevano parlato e che lo Spirito degli Elohim riposava sulle acque. Se supponiamo che qui siano indicate tre persone, non vi sarà alcuna distinzione tra esse. Ne seguirà infatti sia che il Figlio è generato da se stesso, sia che lo Spirito non è del Padre, ma di se stesso. Per me è sufficiente che il numero plurale esprima quelle potenze che Dio esercitò nel creare il mondo. Inoltre riconosco che la Scrittura, sebbene ricordi molte potenze della Divinità, tuttavia ci riconduce sempre al Padre, e alla sua Parola e al suo Spirito, come vedremo fra poco. Ma quelle assurdità alle quali ho accennato ci vietano di deformare con sottigliezze ciò che Mosè dichiara semplicemente riguardo a Dio stesso, applicandolo alle Persone distinte della Divinità. Questo, tuttavia, ritengo sia fuori di ogni controversia: che, dalla particolare circostanza del passo stesso, qui è attribuito a Dio un titolo che esprime quella potenza che in qualche modo era già inclusa nella sua essenza eterna.
*E la terra era informe e vuota.* Non sarò molto sollecito nell’esposizione di questi due epiteti, תוהו (*tohu*) e בוהו (*bohu*). Gli Ebrei li usano quando designano qualcosa di vuoto e confuso, o vano e di nessun valore. Senza dubbio Mosè li ha posti entrambi in opposizione a tutti quegli oggetti creati che riguardano la forma, l’ornamento e la perfezione del mondo. Se ora togliessimo, dico, dalla terra tutto ciò che Dio aggiunse dopo il tempo qui ricordato, avremmo allora questo caos rozzo e non lavorato, o piuttosto informe. Pertanto considero ciò che egli aggiunge immediatamente, cioè che «le tenebre erano sulla faccia dell’abisso», come parte di quella vuota confusione: poiché la luce cominciò a dare al mondo una certa apparenza esteriore. Per la stessa ragione egli la chiama abisso e acque, poiché in quella massa di materia nulla era solido o stabile, nulla di distinto. E lo Spirito di Dio. Gli interpreti hanno travisato questo passo in vari modi. L’opinione di alcuni, secondo cui esso significherebbe il vento, è troppo fredda per richiedere una confutazione. Coloro che lo intendono come lo Spirito eterno di Dio fanno bene; tuttavia non tutti colgono il pensiero di Mosè nel contesto del suo discorso; da qui nascono le varie interpretazioni del participio מרחפת (merachepeth). Esporrò anzitutto ciò che, a mio giudizio, Mosè intendeva. Abbiamo già udito che, prima che Dio avesse portato a perfezione il mondo, esso era una massa informe; ora egli insegna che era necessaria la potenza dello Spirito per sostenerla. Infatti poteva sorgere questo dubbio nella mente: come poteva reggersi un ammasso così disordinato, dal momento che ora vediamo il mondo conservato dal governo, cioè dall’ordine? Egli dunque afferma che questa massa, per quanto confusa fosse, venne resa stabile, per un certo tempo, dalla segreta efficacia dello Spirito. Ora vi sono due significati della parola ebraica che si adattano al presente passo: o che lo Spirito si muovesse e si agitasse sopra le acque, per esercitare la sua forza; oppure che covasse su di esse per nutrirle. Poiché, quanto al risultato, fa poca differenza quale di queste spiegazioni si preferisca, si lasci libero il giudizio del lettore. Ma se quel caos richiedeva la segreta ispirazione di Dio per non dissolversi rapidamente, come potrebbe questo ordine, così bello e distinto, sussistere da sé, se non traesse forza da altrove? Pertanto deve adempiersi quella Scrittura: «Mandi il tuo Spirito, ed essi sono creati, e tu rinnovi la faccia della terra» (Salmi 104:30); così, d’altra parte, non appena il Signore ritira il suo Spirito, tutte le cose ritornano nella loro polvere e svaniscono (Salmi 104:29).
E Dio disse. Mosè ora, per la prima volta, introduce Dio nell’atto di parlare, quasi che avesse creato la massa del cielo e della terra senza la Parola. Eppure Giovanni testimonia che «senza di lui nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto» (Giovanni 1:3). Ed è certo che il mondo ebbe inizio per la stessa efficacia della Parola mediante la quale fu portato a compimento. Dio, tuttavia, non manifestò la sua Parola finché non procedette a dare origine alla luce; poiché nell’atto del distinguere la sua sapienza comincia a rendersi manifesta. Questa sola cosa è sufficiente a confutare la bestemmia di Serveto. Questo empio sofista afferma che il primo inizio della Parola avvenne quando Dio comandò che la luce fosse; come se, in verità, la causa non precedesse il suo effetto. Poiché però mediante la Parola di Dio le cose che non erano vennero improvvisamente all’esistenza, dobbiamo piuttosto inferire l’eternità della sua essenza. Perciò gli Apostoli dimostrano giustamente la divinità di Cristo dal fatto che, poiché egli è la Parola di Dio, tutte le cose sono state create per mezzo di lui. Serveto immagina una nuova qualità in Dio quando egli comincia a parlare. Ma dobbiamo pensare ben diversamente riguardo alla Parola di Dio, cioè che essa è la Sapienza che dimora in Dio, e senza la quale Dio non potrebbe mai essere; il cui effetto, tuttavia, divenne manifesto quando fu creata la luce. «Sia la luce». Era opportuno che la luce, mediante la quale il mondo doveva essere adornato di così eccellente bellezza, fosse creata per prima; e questo fu anche l’inizio della distinzione (fra le creature). Tuttavia, non avvenne per disattenzione o per caso che la luce precedesse il sole e la luna. Nulla ci è più naturale che vincolare la potenza di Dio a quegli strumenti di cui egli si serve come mezzi. Il sole e la luna ci forniscono la luce; e, secondo il nostro modo di pensare, includiamo a tal punto in essi questo potere di illuminare che, se fossero tolti dal mondo, sembrerebbe impossibile che restasse alcuna luce. Pertanto il Signore, mediante l’ordine stesso della creazione, rende testimonianza di avere nelle sue mani la luce, che egli è capace di comunicarci anche senza il sole e la luna. Inoltre, dal contesto è certo che la luce fu creata in modo da alternarsi con le tenebre. Ma si può chiedere se luce e tenebre si succedessero a turno lungo tutto il circuito del mondo, oppure se le tenebre occupassero una metà del cerchio mentre la luce splendeva nell’altra. Non vi è però dubbio che l’ordine della loro successione fosse alternato; ma se fosse giorno ovunque nello stesso tempo, e ovunque notte allo stesso modo, preferisco lasciarlo indeciso; né è una cosa di grande necessità da conoscere.
E Dio vide la luce. Qui Dio è presentato da Mosè come colui che esamina la propria opera, per trarne compiacimento. Ma egli lo fa per il nostro bene, per insegnarci che Dio non ha fatto nulla senza una ragione e un disegno precisi. Non dobbiamo quindi intendere le parole di Mosè come se Dio non sapesse che la sua opera era buona finché non fosse stata completata. Il senso del passo è piuttosto che l’opera, così come ora la vediamo, fu approvata da Dio. Pertanto non resta a noi altro che acquiescere a questo giudizio di Dio. E questa ammonizione è molto utile. Infatti, mentre l’uomo dovrebbe applicare tutti i suoi sensi all’ammirata contemplazione delle opere di Dio, vediamo quanta libertà egli si permetta in realtà nel denigrarle.
E Dio chiamò la luce. Cioè, Dio volle che vi fosse una regolare vicissitudine di giorni e di notti; e ciò seguì immediatamente quando il primo giorno giunse al termine. Infatti Dio sottrasse la luce alla vista, affinché la notte fosse l’inizio di un altro giorno. Ciò che Mosè dice, tuttavia, ammette una duplice interpretazione: o che questa fosse la sera e la mattina appartenenti al primo giorno, oppure che il primo giorno consistesse della sera e della mattina. Qualunque interpretazione si scelga, non cambia nulla nel senso, poiché egli intende semplicemente che il giorno fosse composto di due parti. Inoltre, egli fa iniziare il giorno, secondo l’usanza della sua nazione, dalla sera. È inutile disputare se questo sia o meno l’ordine migliore e legittimo. Sappiamo che le tenebre precedettero il tempo stesso; quando Dio ritirò la luce, concluse il giorno. Non dubito che i più antichi padri, per i quali la notte che sopraggiungeva era la fine di un giorno e l’inizio di un altro, seguissero questo modo di computare. Benché Mosè non intendesse qui prescrivere una regola la cui violazione sarebbe stata colpevole, tuttavia (come abbiamo detto) egli adattò il suo discorso all’uso comune. Perciò, come i Giudei condannano stupidamente tutti i computi degli altri popoli, come se Dio avesse sancito soltanto questo; così, d’altra parte, sono ugualmente stolti coloro che sostengono che questo sobrio computo, che Mosè approva, sia assurdo. Il primo giorno Qui è manifestamente confutato l’errore di coloro che sostengono che il mondo sia stato fatto in un istante. Infatti è una cavillazione troppo forzata affermare che Mosè distribuisca in sei giorni l’opera che Dio avrebbe compiuto tutta insieme, al solo scopo di impartire un insegnamento. Concludiamo piuttosto che Dio stesso abbia impiegato lo spazio di sei giorni, allo scopo di adattare le sue opere alla capacità degli uomini. Noi passiamo con leggerezza sopra l’infinita gloria di Dio che qui risplende; da dove nasce ciò, se non dalla nostra eccessiva ottusità nel considerare la sua grandezza? Nel frattempo, la vanità della nostra mente ci trascina altrove. Per correggere questo difetto, Dio applicò il rimedio più adatto quando distribuì la creazione del mondo in parti successive, affinché fissasse la nostra attenzione e ci costringesse, come se avesse posato la sua mano su di noi, a fermarci e a riflettere. A conferma della glossa sopra menzionata, viene citato in modo poco accorto un passo dell’Ecclesiastico: «Colui che vive in eterno ha creato tutte le cose insieme» (Siracide 18:1). Infatti l’avverbio greco κοινῇ, usato dall’autore, non significa affatto questo, né si riferisce al tempo, ma a tutte le cose universalmente.
Sia fatto un firmamento. L’opera del secondo giorno consiste nel predisporre uno spazio vuoto attorno alla circonferenza della terra, affinché il cielo e la terra non siano mescolati insieme. Poiché infatti il proverbio «mescolare cielo e terra» indica il massimo grado di disordine, questa distinzione deve essere considerata di grande importanza. Inoltre, la parola רקיע (*rakia*) comprende non solo l’intera regione dell’aria, ma tutto ciò che è aperto sopra di noi, così come talvolta la parola *cielo* è intesa dai Latini. Pertanto, la disposizione tanto dei cieli quanto dell’atmosfera inferiore è chiamata senza distinzione רקיע (*rakia*); ma talvolta la parola significa entrambe le cose insieme, talvolta una sola parte, come apparirà più chiaramente nel seguito. Non so perché i Greci abbiano scelto di rendere questa parola con ςτερέωμα, che i Latini hanno imitato nel termine *firmamentum*; poiché letteralmente essa significa *distesa*. A ciò allude Davide quando dice che «i cieli sono distesi da Dio come una tenda» (Salmi 104:2). Se qualcuno domandasse se questa vacuità non esistesse già in precedenza, rispondo che, per quanto possa essere vero che non tutte le parti della terra fossero sommerse dalle acque, tuttavia ora, per la prima volta, fu stabilita una separazione, mentre prima esisteva una mescolanza confusa. Mosè descrive l’uso specifico di questa distesa, cioè di dividere le acque dalle acque, da cui nasce una grande difficoltà. Infatti sembra contrario al senso comune, e del tutto incredibile, che vi siano acque al di sopra del cielo. Perciò alcuni ricorrono all’allegoria e filosofeggiano sugli angeli; ma ciò è del tutto fuori luogo. A mio avviso, infatti, questo è un principio certo: qui non si tratta di altro che della forma visibile del mondo. Chi desidera apprendere l’astronomia e altre arti più recondite, vada altrove. Qui lo Spirito di Dio vuole istruire tutti gli uomini senza eccezione; e pertanto ciò che Gregorio afferma falsamente e inutilmente riguardo alle statue e alle immagini è in realtà applicabile alla storia della creazione, vale a dire che essa è il libro degli ignoranti. Le cose che egli racconta servono dunque come ornamento di quel teatro che pone davanti ai nostri occhi. Da ciò concludo che le acque qui intese sono tali quali possono essere percepite dai rozzi e dagli ignoranti. L’affermazione di alcuni, secondo cui essi accolgono per fede ciò che hanno letto riguardo alle acque sopra i cieli, nonostante la loro ignoranza su di esse, non è conforme all’intento di Mosè. E in verità una più lunga indagine su una materia aperta e manifesta è superflua. Vediamo che le nubi sospese nell’aria, le quali minacciano di cadere sulle nostre teste, tuttavia ci lasciano spazio per respirare. Coloro che negano che ciò avvenga per la meravigliosa provvidenza di Dio sono vanamente gonfiati dalla follia delle proprie menti. Sappiamo, infatti, che la pioggia è prodotta secondo natura; ma il diluvio mostra sufficientemente quanto rapidamente potremmo essere sommersi dallo scoppio delle nubi, se le cateratte del cielo non fossero chiuse dalla mano di Dio. Né Davide annovera temerariamente questo tra i Suoi miracoli, quando dice che Dio «pone le travi delle sue dimore nelle acque» (Salmi 104:31); e altrove invita le acque celesti a lodare Dio (Salmi 148:4). Poiché dunque Dio ha creato le nubi e ha assegnato loro una regione sopra di noi, non si deve dimenticare che esse sono trattenute dalla potenza di Dio, affinché, prorompendo con improvvisa violenza, non ci inghiottano; e tanto più considerando che nessun’altra barriera si oppone loro se non l’aria, liquida e cedevole, che facilmente cederebbe se non prevalesse questa parola: «Sia una distesa fra le acque». Tuttavia Mosè non ha apposto all’opera di questo giorno la nota che Dio vide che era cosa buona; forse perché non vi era alcun vantaggio da essa finché le acque terrestri non furono raccolte nel loro luogo proprio, cosa che avvenne il giorno seguente, e perciò lì viene ripetuta due volte.
*Siano raccolte le acque…* Anche questo è un miracolo illustre: che le acque, ritirandosi, abbiano dato agli uomini un luogo dove abitare. Infatti persino i filosofi ammettono che la posizione naturale delle acque fosse quella di coprire tutta la terra, come Mosè dichiara che avvenne in principio; anzitutto perché, essendo un elemento, deve essere circolare, e perché questo elemento, essendo più pesante dell’aria e più leggero della terra, dovrebbe coprire quest’ultima in tutta la sua circonferenza. Ma che i mari, raccolti come in mucchi, facciano spazio all’uomo, appare come qualcosa di preternaturale; e perciò la Scrittura spesso esalta in modo particolare la bontà di Dio. Si veda il Salmo 33:7: «Egli raccoglie le acque del mare come in un mucchio e ripone gli abissi nei suoi tesori». E anche il Salmo 78:13: «Ha raccolto le acque come in un otre». Geremia 5:22: «Non mi temerete? non tremerete alla mia presenza, io che ho posto la sabbia come confine del mare?» Giobbe 38:8: «Chi ha rinchiuso il mare con porte? Non l’ho forse circondato con porte e sbarre? Ho detto: Fin qui giungerai e non oltre; qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Sappiamo dunque che abitiamo sulla terra asciutta perché Dio, con il suo comando, ha rimosso le acque affinché non inondassero tutta la terra.
*Produca la terra erba.* Finora la terra era nuda e sterile; ora il Signore la rende feconda mediante la sua parola. Poiché, sebbene fosse già destinata a produrre frutto, tuttavia, finché una nuova virtù non procedette dalla bocca di Dio, doveva rimanere secca e vuota. Infatti non era naturalmente adatta a produrre alcunché, né possedeva da altra fonte un principio di germinazione, finché non si aprì la bocca del Signore. Poiché ciò che Davide dichiara riguardo ai cieli deve essere esteso anche alla terra: che essa fu «fatta dalla parola del Signore ed ornata e provvista dal soffio della sua bocca» (Salmi 33:6). Inoltre, non avvenne per caso che le erbe e gli alberi fossero creati prima del sole e della luna. Ora vediamo, infatti, che la terra è vivificata dal sole affinché produca i suoi frutti; né Dio ignorava questa legge della natura, che egli stesso ha poi stabilito: ma, affinché imparassimo a riferire ogni cosa a lui, allora non si servì del sole né della luna. Egli ci permette di percepire l’efficacia che infonde in essi, nella misura in cui si avvale della loro strumentalità; ma poiché siamo soliti considerare come parte della loro natura proprietà che essi ricevono altrove, era necessario che il vigore che ora sembrano comunicare alla terra fosse manifesto prima che fossero creati. È vero che riconosciamo a parole che la Prima Causa è autosufficiente, e che le cause intermedie e secondarie possiedono solo ciò che ricevono in prestito da questa Prima Causa; ma, in realtà, ci raffiguriamo Dio come povero o imperfetto, se non è assistito da cause seconde. Quanti, infatti, sono quelli che, trattando della fecondità della terra, si elevano al di sopra del sole? Ciò dunque che dichiariamo che Dio ha fatto deliberatamente, era indispensabilmente necessario: affinché imparassimo dall’ordine stesso della creazione che Dio opera mediante le creature, non come se avesse bisogno di un aiuto esterno, ma perché così gli è piaciuto. Quando egli dice: «La terra produca l’erba che faccia seme, l’albero il cui seme è in se stesso», significa non solo che allora furono create le erbe e gli alberi, ma anche che, nello stesso tempo, entrambi furono dotati della facoltà di propagazione, affinché le rispettive specie fossero perpetuate. Poiché dunque vediamo ogni giorno la terra riversare su di noi tali ricchezze dal suo grembo; poiché vediamo le erbe produrre seme, e questo seme accolto e custodito nel seno della terra finché germoglia; e poiché vediamo alberi spuntare da altri alberi; tutto ciò procede dalla medesima Parola. Se dunque ci chiediamo come avvenga che la terra sia feconda, che dal seme nasca il germoglio, che i frutti giungano a maturità e che le loro diverse specie siano riprodotte ogni anno, non si troverà altra causa se non questa: che Dio ha parlato una volta per tutte, cioè ha emanato il suo decreto eterno; e che la terra, e tutte le cose che da essa procedono, obbediscono al comando di Dio, che esse ascoltano sempre.
*Vi siano dei luminari.* Mosè passa poi al quarto giorno, nel quale furono create le stelle. Dio aveva già creato la luce, ma ora istituisce un nuovo ordine nella natura: che il sole sia il dispensatore della luce diurna, e che la luna e le stelle splendano di notte. E assegna loro questo ufficio per insegnarci che tutte le creature sono soggette alla sua volontà ed eseguono ciò che egli comanda loro. Infatti Mosè non riferisce altro se non che Dio ha stabilito certi strumenti per diffondere sulla terra, mediante mutamenti reciproci, quella luce che era stata creata in precedenza. L’unica differenza è questa: che prima la luce era diffusa, ma ora procede da corpi luminosi; i quali, nel servire a questo scopo, obbediscono al comando di Dio. *Per separare il giorno dalla notte.* Egli intende il giorno artificiale, che comincia al sorgere del sole e termina al suo tramonto. Il giorno naturale (che egli menziona sopra), infatti, include in sé anche la notte. Da ciò si deduce che l’alternarsi dei giorni e delle notti sarà continuo, poiché la parola di Dio, che ha stabilito che i giorni siano distinti dalle notti, dirige a questo fine il corso del sole. «Siano per segni». Occorre ricordare che Mosè non parla con acutezza filosofica di misteri occulti, ma riferisce quelle cose che sono ovunque osservate, anche dai non istruiti, e che sono di uso comune. Dal corso del sole e della luna si percepisce principalmente un duplice vantaggio: l’uno è naturale, l’altro riguarda le istituzioni civili. Sotto il termine natura comprendo anche l’agricoltura. Infatti, sebbene la semina e la mietitura richiedano l’arte e l’industria umane, tuttavia è naturale che il sole, avvicinandosi di più, riscaldi la nostra terra, introduca la stagione primaverile e sia causa dell’estate e dell’autunno. Ma che, per aiutare la memoria, gli uomini computino tra loro anni e mesi; che da questi formino lustri e olimpiadi; che osservino giorni stabiliti: questo, dico, è proprio dell’ordinamento civile. Di entrambe queste cose qui si fa menzione. Devo tuttavia esporre in poche parole la ragione per cui Mosè li chiama segni; perché alcune persone curiose abusano di questo passo per dare colore alle loro frivole predizioni. Io chiamo costoro Caldei e fanatici, che traggono presagi da ogni cosa a partire dagli aspetti delle stelle. Poiché Mosè dichiara che il sole e la luna furono stabiliti come segni, essi pensano di essere autorizzati a ricavarne tutto ciò che vogliono. Ma la confutazione è facile: essi sono chiamati segni di determinate cose, non segni per indicare qualunque cosa secondo la nostra fantasia. Che cosa infatti afferma Mosè essere da essi significato, se non le cose che appartengono all’ordine della natura? Poiché lo stesso Dio che qui istituisce i segni attesta per mezzo di Isaia che «dissiperà i segni degli indovini» (Isaia 44:25) e ci proibisce di essere «spaventati dai segni del cielo» (Geremia 10:2). Ma poiché è manifesto che Mosè non si discosta dall’uso ordinario degli uomini, desisto da una discussione più lunga. La parola מועדים (moadim), che essi traducono «tempi determinati», è intesa in vari modi tra gli Ebrei: infatti significa sia tempo sia luogo, e anche assemblee di persone. I Rabbini comunemente spiegano il passo come riferito alle loro festività. Io però ne estendo il significato più ampiamente, per indicare anzitutto le opportunità del tempo, che in francese si chiamano saisons (stagioni), e poi tutte le fiere e le assemblee giudiziarie. Infine, Mosè ricorda l’infinita bontà di Dio nel far sì che il sole e la luna non solo ci illuminino, ma ci procurino anche vari altri vantaggi per l’uso quotidiano della vita. Resta dunque che noi, godendo con purezza delle molteplici liberalità di Dio, impariamo a non profanare doni così eccellenti con un loro abuso sconsiderato. Nel frattempo, ammiriamo questo meraviglioso Artefice, che ha disposto con tanta bellezza tutte le cose in alto e in basso, affinché rispondano tra loro nel più armonioso concerto.
*Siano per luci.* È opportuno ripetere ancora ciò che ho detto prima: qui non si discute in modo filosofico quanto grande sia il sole nel cielo, e quanto grande o quanto piccola sia la luna; ma quanta luce giunga a noi da essi. Mosè infatti si rivolge qui ai nostri sensi, affinché la conoscenza dei doni di Dio di cui godiamo non svanisca. Perciò, per comprendere il significato di Mosè, non serve a nulla elevarsi al di sopra dei cieli; apriamo piuttosto gli occhi per contemplare questa luce che Dio accende per noi sulla terra. Con questo metodo (come ho già osservato) è sufficientemente confutata la disonestà di quegli uomini che rimproverano Mosè per non aver parlato con maggiore precisione. Poiché, come si addiceva a un teologo, egli ebbe riguardo a noi piuttosto che alle stelle. Né, in verità, ignorava il fatto che la luna non possiede uno splendore sufficiente a illuminare la terra, se non lo riceve in prestito dal sole; ma ritenne sufficiente dichiarare ciò che tutti possiamo chiaramente percepire, cioè che la luna è per noi dispensatrice di luce. Che essa sia, come affermano gli astronomi, un corpo opaco, lo ammetto come vero, ma nego che sia un corpo oscuro. Infatti, anzitutto, poiché è posta al di sopra dell’elemento del fuoco, deve necessariamente essere un corpo igneo. Ne consegue quindi che è anche luminoso; ma, poiché non ha luce sufficiente per giungere fino a noi, prende in prestito dal sole ciò che le manca. Egli la chiama una luce minore per confronto, perché la porzione di luce che essa emette verso di noi è piccola rispetto all’infinito splendore del sole.
Ho detto che, parlando della luce maggiore, Mosè non si dilunga qui in sottili speculazioni, come farebbe un filosofo, sui segreti della natura, come si può vedere da queste parole. Anzitutto egli assegna ai pianeti e alle stelle un posto nell’estensione del cielo; ma gli astronomi distinguono le sfere e, nello stesso tempo, insegnano che le stelle fisse hanno la loro sede propria nel firmamento. Mosè fa due grandi luminari; ma gli astronomi dimostrano, con ragioni conclusive, che l’astro di Saturno, il quale a causa della sua grande distanza appare il più piccolo di tutti, è più grande della luna. Qui sta la differenza: Mosè scrisse in uno stile popolare cose che, senza istruzione, tutte le persone comuni, dotate di buon senso, sono in grado di comprendere; mentre gli astronomi indagano con grande fatica tutto ciò che l’acume della mente umana può afferrare. Tuttavia, questo studio non deve essere riprovato, né questa scienza condannata, perché alcuni individui fanatici sono soliti respingere con audacia tutto ciò che è loro ignoto. Infatti l’astronomia non è solo piacevole, ma anche molto utile da conoscere: non si può negare che quest’arte manifesti l’ammirabile sapienza di Dio. Perciò, come devono essere onorati gli uomini ingegnosi che hanno speso un lavoro utile in questo campo, così coloro che hanno tempo e capacità non dovrebbero trascurare questo genere di esercizio. Né Mosè volle davvero distoglierci da tale ricerca, omettendo ciò che è proprio dell’arte; ma poiché egli era stato stabilito maestro tanto degli ignoranti e rozzi quanto dei dotti, non poteva adempiere il suo ufficio se non scendendo a questo metodo di insegnamento più semplice. Se avesse parlato di cose generalmente sconosciute, gli incolti avrebbero potuto addurre come scusa che tali argomenti erano al di sopra delle loro capacità. Infine, poiché qui lo Spirito di Dio apre una scuola comune per tutti, non è sorprendente che egli scelga soprattutto quei soggetti che possono essere compresi da tutti. Se l’astronomo indaga sulle dimensioni reali degli astri, troverà che la luna è più piccola di Saturno; ma ciò è qualcosa di astruso, poiché alla vista appare diversamente. Mosè, dunque, adatta piuttosto il suo discorso all’uso comune. Infatti, poiché il Signore stende, per così dire, la sua mano verso di noi facendoci godere dello splendore del sole e della luna, quanto grande sarebbe la nostra ingratitudine se chiudessimo gli occhi contro la nostra stessa esperienza? Non vi è dunque alcuna ragione per cui dei ciarlieri deridano l’inesperienza di Mosè nel fare della luna il secondo luminare; egli non ci chiama a salire in cielo, ma propone soltanto cose che stanno aperte davanti ai nostri occhi. Gli astronomi possiedano pure la loro conoscenza più elevata; ma, nel frattempo, coloro che percepiscono mediante la luna lo splendore della notte sono convinti, dal suo stesso uso, di perversa ingratitudine se non riconoscono la beneficenza di Dio. Dominare Egli non attribuisce al sole e alla luna un tale dominio da diminuire, neppure in minima parte, la potenza di Dio; ma poiché il sole, in metà del circuito del cielo, governa il giorno, e la luna, a turno, la notte, assegna loro pertanto una sorta di governo. Tuttavia ricordiamo che si tratta di un governo tale per cui il sole rimane pur sempre un servo e la luna una ancella. Nel frattempo respingiamo la fantasticheria di Platone, che attribuisce ragione e intelligenza agli astri. Accontentiamoci di questa semplice esposizione: che Dio governa i giorni e le notti mediante il ministero del sole e della luna, poiché li ha come suoi cocchieri per trasportare una luce adatta alle stagioni.
*Le acque producano… l’essere vivente che si muove* Nel quinto giorno sono creati gli uccelli e i pesci. Viene aggiunta la benedizione di Dio, affinché essi producano da sé la loro prole. Qui vi è un genere di propagazione diverso da quello delle erbe e degli alberi: là infatti la forza di fruttificare è nelle piante e quella di germinare è nel seme; qui invece ha luogo la generazione. Tuttavia sembra poco conforme alla ragione che egli dichiari che gli uccelli siano proceduti dalle acque; e perciò questo è colto da uomini cavillosi come occasione di calunnia. Ma anche se non apparisse altra ragione se non che così piacque a Dio, non sarebbe forse conveniente per noi acquiescere al suo giudizio? Perché non dovrebbe essere lecito a colui che ha creato il mondo dal nulla far nascere gli uccelli dall’acqua? E quale maggiore assurdità, vi prego, vi è nell’origine degli uccelli dall’acqua rispetto a quella della luce dalle tenebre? Pertanto, coloro che con tanta arroganza assalgono il loro Creatore, attendano il Giudice che li ridurrà al nulla. Nondimeno, se nel confronto dobbiamo servirci di ragionamenti fisici, sappiamo che l’acqua ha maggiore affinità con l’aria di quanta ne abbia la terra. Ma Mosè deve piuttosto essere ascoltato come nostro maestro, lui che intende trasportarci all’ammirazione di Dio attraverso la considerazione delle sue opere. E in verità il Signore, sebbene sia l’Autore della natura, tuttavia nella creazione del mondo non ha affatto seguito la natura come sua guida, ma ha piuttosto scelto di manifestare tali dimostrazioni della sua potenza da costringerci allo stupore.
E Dio creò Qui sorge una questione dalla parola *creò*. Poiché in precedenza abbiamo sostenuto che, siccome il mondo fu creato, esso fu fatto dal nulla; ora però Mosè dice che furono create cose formate da altra materia. Coloro che affermano, in senso vero e proprio, che i pesci furono creati perché le acque non erano in alcun modo sufficienti o adatte alla loro produzione, ricorrono soltanto a un sotterfugio: infatti rimarrebbe pur sempre il fatto che la materia di cui furono fatti esisteva già prima, cosa che, in stretto rigore, la parola *creare* non ammette. Io quindi non limito la creazione qui menzionata all’opera del quinto giorno, ma ritengo piuttosto che essa si riferisca a quella massa informe e confusa che fu come la fonte di tutto il mondo. Dio dunque, si dice, creò le balene (*balaenas*) e gli altri pesci, non perché l’inizio della loro creazione debba essere fatto risalire al momento in cui ricevettero la loro forma, ma perché essi sono compresi nella materia universale che fu fatta dal nulla. Così, per quanto riguarda le specie, allora fu soltanto aggiunta la forma; tuttavia il termine *creazione* è giustamente usato sia per il tutto sia per le parti. La parola comunemente resa con *balene* (*cetos vel cete*) potrebbe, a mio giudizio, non impropriamente essere tradotta con *thynnus* o tonno, in quanto corrispondente al termine ebraico *thaninim*. Quando dice che «le acque produssero», egli passa a lodare l’efficacia della parola, che le acque ascoltano con tanta prontezza che, pur essendo di per sé prive di vita, all’improvviso pullulano di una prole vivente; tuttavia il linguaggio di Mosè esprime qualcosa di più, vale a dire che innumerevoli pesci sono prodotti ogni giorno dalle acque, perché quella parola di Dio, con la quale egli lo comandò una volta, rimane continuamente in vigore.
E Dio li benedisse Quale sia la forza di questa benedizione lo dichiara subito. Infatti Dio non prega, alla maniera degli uomini, affinché noi siamo benedetti; ma, con la semplice manifestazione del suo proposito, realizza ciò che gli uomini cercano con suppliche ardenti. Egli dunque benedice le sue creature quando comanda loro di moltiplicarsi e crescere; cioè infonde in esse la fecondità mediante la sua parola. Ma sembra vano che Dio si rivolga a pesci e rettili. Rispondo che questo modo di parlare non è altro che quello che poteva essere facilmente compreso. L’esperienza stessa infatti insegna che la forza della parola che fu rivolta ai pesci non fu transitoria, ma piuttosto, essendo stata infusa nella loro natura, ha messo radice e porta frutto continuamente.
Scende al sesto giorno, nel quale furono creati gli animali e poi l’uomo. «Produca la terra», dice, «esseri viventi». Ma come può un elemento morto dare vita? Pertanto, sotto questo aspetto, vi è un miracolo non minore di quello che vi sarebbe stato se Dio avesse cominciato a creare dal nulla quelle cose che comandò di procedere dalla terra. E tuttavia egli non trae la sua materia dalla terra perché ne avesse bisogno, ma affinché potesse meglio congiungere le parti separate del mondo con l’universo stesso. Tuttavia si potrebbe domandare perché qui non aggiunga anche la sua benedizione. Rispondo che ciò che Mosè aveva espresso prima in un’occasione simile deve essere qui ugualmente inteso, sebbene egli non lo ripeta parola per parola. Dico inoltre che, per indicare la stessa cosa, è sufficiente che Mosè dichiari che gli animali furono creati «secondo la loro specie»; poiché questa distribuzione portava con sé qualcosa di stabile. Da ciò si può anche inferire che era inclusa la prole degli animali. Infatti, a che scopo esistono specie distinte, se non perché gli individui, secondo i loro diversi generi, possano moltiplicarsi? Bestiame Alcuni degli Ebrei distinguono così tra «bestiame» e «bestie della terra»: il bestiame si nutrirebbe di erba, mentre le bestie della terra sarebbero quelle che mangiano carne. Ma il Signore, poco dopo, assegna le erbe a entrambi come cibo comune; e si può osservare che in diverse parti della Scrittura queste due parole sono usate indifferentemente. In verità, non dubito che Mosè, dopo aver nominato il *Behemoth* (bestiame), abbia aggiunto l’altro termine per una spiegazione più completa. Con «rettili», in questo passo, si intendano quelli che sono di natura terrena.
*Facciamo l’uomo.* Sebbene il tempo qui usato sia il futuro, tutti devono riconoscere che questo è il linguaggio di chi apparentemente sta deliberando. Finora Dio è stato presentato semplicemente come colui che comanda; ora, quando si accosta alla più eccellente di tutte le sue opere, entra in consultazione. Dio certamente avrebbe potuto comandare con la sola parola ciò che desiderava fosse fatto; ma volle attribuire questo onore all’eccellenza dell’uomo, entrando in qualche modo in consultazione riguardo alla sua creazione. Questo è il più alto onore con cui ci ha dignificati; e a un giusto apprezzamento di esso Mosè, con questo modo di parlare, intendeva stimolare le nostre menti. Infatti Dio non comincia ora per la prima volta a considerare quale forma dare all’uomo e con quali doti sarebbe stato opportuno adornarlo, né si arresta come davanti a un’opera difficile; ma, come abbiamo già osservato, così come la creazione del mondo fu distribuita in sei giorni per amor nostro, affinché le nostre menti potessero più facilmente essere trattenute nella meditazione delle opere di Dio, così ora, allo scopo di raccomandare alla nostra attenzione la dignità della nostra natura, egli, prendendo consiglio circa la creazione dell’uomo, testimonia di stare per intraprendere qualcosa di grande e meraviglioso. In verità vi sono molte cose, in questa natura corrotta, che possono indurre al disprezzo; ma se si ponderano rettamente tutte le circostanze, l’uomo è, tra le altre creature, un certo eminente esempio della sapienza, della giustizia e della bontà divine, tanto che dagli antichi è giustamente chiamato μικρίκοσμος, “un mondo in miniatura”. Ma poiché il Signore non ha bisogno di alcun altro consigliere, non vi è dubbio che abbia consultato se stesso. I Giudei si rendono del tutto ridicoli nel pretendere che Dio abbia comunicato con la terra o con gli angeli. La terra, perbacco, sarebbe stata un consigliere eccellentissimo! E attribuire anche la minima parte di un’opera così squisita agli angeli è un sacrilegio che deve essere tenuto in abominio. Dove, infatti, troveranno che siamo stati creati a immagine della terra o degli angeli? Non esclude forse Mosè direttamente tutte le creature, quando dichiara espressamente che Adamo fu creato a immagine di Dio? Altri, che si ritengono più acuti ma sono doppiamente traviati, dicono che Dio parlò di se stesso al plurale secondo l’uso dei principi. Come se davvero quello stile barbaro di parlare, che è entrato in uso solo in pochi secoli recenti, fosse già allora prevalente nel mondo. Ma è bene che la loro malvagità canina sia stata accompagnata da una così grande stupidità, da tradire la loro follia perfino ai bambini. I cristiani, dunque, giustamente sostengono, da questa testimonianza, che esiste una pluralità di Persone nella Divinità. Dio non convoca alcun consigliere estraneo; perciò inferiamo che egli trova in se stesso qualcosa di distinto; poiché, in verità, la sua eterna sapienza e la sua potenza risiedono in lui. Nella nostra immagine, ecc. Gli interpreti non concordano sul significato di queste parole. La maggior parte, e quasi tutti, ritengono che il termine *immagine* debba essere distinto da *somiglianza*. E la distinzione comunemente accolta è che l’immagine risiede nella sostanza, la somiglianza negli accidenti di una cosa. Coloro che vogliono definire brevemente l’argomento affermano che nell’immagine sono contenuti quei doni che Dio ha conferito alla natura umana in generale, mentre spiegano la somiglianza come doni gratuiti. Ma Agostino, più di tutti gli altri, indulge in speculazioni di eccessiva raffinatezza, allo scopo di costruire una Trinità nell’uomo. Infatti, appropriandosi delle tre facoltà dell’anima enumerate da Aristotele — l’intelletto, la memoria e la volontà — egli in seguito ricava molte Trinità da una sola. Se qualche lettore, avendo tempo libero, desidera compiacersi di tali speculazioni, legga il decimo e il quattordicesimo libro *Sulla Trinità*, nonché l’undicesimo libro della *Città di Dio*. Riconosco, in verità, che nell’uomo vi è qualcosa che si riferisce al Padre, al Figlio e allo Spirito; e non ho difficoltà ad ammettere la suddetta distinzione delle facoltà dell’anima, sebbene la divisione più semplice in due parti, più usata nella Scrittura, sia meglio adatta alla sana dottrina della pietà; ma una definizione dell’immagine di Dio dovrebbe poggiare su un fondamento più solido di tali sottigliezze. Quanto a me, prima di definire l’immagine di Dio, negherei che essa differisca dalla sua somiglianza. Infatti, quando Mosè ripete in seguito le stesse cose, tralascia la somiglianza e si accontenta di menzionare l’immagine. Se qualcuno obiettasse che egli mirava semplicemente alla brevità, rispondo che là dove usa due volte la parola *immagine* non fa alcuna menzione della somiglianza. Sappiamo inoltre che era consuetudine presso gli Ebrei ripetere la stessa cosa con parole diverse. Del resto, la stessa espressione mostra che il secondo termine fu aggiunto a scopo esplicativo: «Facciamo», egli dice, «l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza», cioè affinché sia simile a Dio, o rappresenti l’immagine di Dio. Infine, nel quinto capitolo, senza fare alcuna menzione dell’immagine, pone al suo posto la somiglianza (Genesi 5:1). Benché abbiamo eliminato ogni differenza tra i due termini, non abbiamo ancora stabilito che cosa sia questa immagine o somiglianza. Gli antropomorfiti furono troppo grossolani nel cercare questa somiglianza nel corpo umano; tale fantasticheria resti dunque sepolta. Altri procedono con un po’ più di sottigliezza, i quali, pur non immaginando Dio come corporeo, tuttavia sostengono che l’immagine di Dio sia nel corpo dell’uomo, perché in esso risplende mirabilmente la sua opera; ma questa opinione, come vedremo, non è affatto conforme alla Scrittura. Non è più corretta l’esposizione di Crisostomo, il quale riferisce l’immagine al dominio che fu dato all’uomo affinché, in un certo senso, agisse come vicario di Dio nel governo del mondo. Questo è davvero una parte, sebbene assai piccola, dell’immagine di Dio. Poiché l’immagine di Dio era stata distrutta in noi dalla caduta, possiamo giudicare da ciò che è la sua restaurazione quale fosse originariamente. Paolo dice che siamo trasformati nell’immagine di Dio mediante il Vangelo. E, secondo lui, la rigenerazione spirituale non è altro che la restaurazione della medesima immagine (Colossesi 3:10 ed Efesini 4:23). Che egli abbia fatto consistere questa immagine nella giustizia e nella vera santità è per la figura della sineddoche; poiché, sebbene questa sia la parte principale, non è tuttavia l’intera immagine di Dio. Con questo termine, dunque, è indicata la perfezione della nostra intera natura, così come appariva quando Adamo era dotato di un retto giudizio, aveva affetti in armonia con la ragione, possedeva tutti i sensi sani e ben regolati, ed eccelleva veramente in ogni bene. Così la sede principale dell’immagine divina era nella sua mente e nel suo cuore, dove essa risplendeva in modo eminente; tuttavia non vi era parte di lui nella quale non brillassero alcune scintille di essa. Vi era infatti un’armonizzazione nelle varie parti dell’anima, corrispondente ai loro diversi uffici. Nella mente fioriva e regnava una perfetta intelligenza, la rettitudine l’accompagnava come compagna, e tutti i sensi erano predisposti e formati per una debita obbedienza alla ragione; e nel corpo vi era una conveniente corrispondenza con questo ordine interno. Ma ora, sebbene in noi si trovino ancora alcuni oscuri lineamenti di quell’immagine, essi sono tuttavia così corrotti e mutilati che si può davvero dire che siano distrutti. Infatti, oltre alla deformità che ovunque appare ripugnante, si aggiunge anche questo male: che nessuna parte è libera dall’infezione del peccato. «A nostra immagine, secondo la nostra somiglianza». Non insisto scrupolosamente sulle particelle ב (beth) e כ (caph). Non so se vi sia qualcosa di solido nell’opinione di alcuni che sostengono che ciò sia detto perché l’immagine di Dio sarebbe stata solo adombrata nell’uomo finché egli non fosse giunto alla sua perfezione. La cosa, in effetti, è vera; ma non credo che nulla di simile sia entrato nella mente di Mosè. È anche vero che Cristo è l’unica immagine del Padre; tuttavia le parole di Mosè non ammettono l’interpretazione secondo cui “a immagine” significherebbe “in Cristo”. Si può inoltre aggiungere che anche l’uomo, sebbene in senso diverso, è chiamato immagine di Dio. In questo punto alcuni dei Padri si sono ingannati, ritenendo di poter confutare gli Ariani con quest’arma, sostenendo che Cristo soltanto è l’immagine di Dio. Vi è poi un’ulteriore difficoltà da affrontare: perché Paolo nega che la donna sia immagine di Dio, mentre Mosè onora entrambi, senza distinzione, con questo titolo? La soluzione è breve: Paolo lì allude soltanto al rapporto domestico. Egli quindi restringe l’immagine di Dio al governo, nel quale l’uomo ha superiorità sulla moglie, e certamente non intende altro se non che l’uomo è superiore nel grado di onore. Qui invece la questione riguarda quella gloria di Dio che risplende in modo peculiare nella natura umana, dove la mente, la volontà e tutti i sensi rappresentano l’ordine divino. «E abbiano dominio». Qui egli ricorda quella parte della dignità con la quale decretò di onorare l’uomo, cioè che avesse autorità su tutte le creature viventi. È vero che egli stabilì l’uomo come signore del mondo; ma sottomette espressamente a lui gli animali, perché essi, avendo una loro inclinazione o istinto, sembrano essere meno soggetti a un’autorità esterna. L’uso del numero plurale indica che questa autorità non fu concessa soltanto ad Adamo, ma anche a tutta la sua discendenza. Da qui inferiamo quale fu il fine per cui tutte le cose furono create: che agli uomini non mancasse nulla di ciò che è utile e necessario alla vita. Nell’ordine stesso della creazione è evidente la sollecitudine paterna di Dio verso l’uomo, poiché egli fornì il mondo di tutte le cose necessarie, e persino di un’immensa abbondanza di ricchezze, prima di formare l’uomo. Così l’uomo fu ricco prima di nascere. Ma se Dio ebbe tale cura di noi prima che esistessimo, non ci lascerà affatto privi di cibo e delle altre necessità della vita, ora che siamo stati posti nel mondo. Se tuttavia spesso sembra tenere la mano come chiusa, ciò va imputato ai nostri peccati.
Così Dio creò l’uomo. La reiterata menzione dell’immagine di Dio non è una ripetizione vana, poiché è un notevole esempio della bontà divina, che non potrà mai essere proclamata abbastanza. E, nello stesso tempo, egli ci ammonisce da quale eccellenza siamo caduti, affinché susciti in noi il desiderio di recuperarne la pienezza. Quando subito dopo aggiunge che Dio li creò maschio e femmina, ci raccomanda quel vincolo coniugale mediante il quale viene custodita la società del genere umano. Infatti questo modo di parlare, “Dio creò l’uomo; maschio e femmina li creò”, ha lo stesso valore come se avesse detto che l’uomo, da solo, era incompleto. In queste circostanze, la donna gli fu aggiunta come compagna affinché entrambi fossero uno solo, come egli esprime più chiaramente nel secondo capitolo. Anche Malachia intende la stessa cosa quando riferisce (Genesi 2:15) che un solo uomo fu creato da Dio, mentre tuttavia possedeva la pienezza dello Spirito. Egli infatti tratta lì della fedeltà coniugale, che i Giudei violavano mediante la loro poligamia. Allo scopo di correggere questo difetto, chiama “un solo uomo” quella coppia, costituita da uomo e donna, che Dio all’inizio aveva congiunto insieme, affinché ciascuno imparasse ad accontentarsi della propria moglie.
E Dio li benedisse. Questa benedizione di Dio può essere considerata come la fonte dalla quale è scaturita la stirpe umana. E dobbiamo intenderla così non solo con riferimento al tutto, ma anche, come si suol dire, in ogni singolo caso. Infatti siamo fecondi o sterili quanto alla prole, a seconda che Dio comunichi la sua potenza ad alcuni e la neghi ad altri. Ma qui Mosè intende semplicemente dichiarare che Adamo con sua moglie fu formato per la produzione della prole, affinché gli uomini popolassero la terra. Dio avrebbe potuto, certo, ricoprire egli stesso la terra di una moltitudine di uomini; ma fu sua volontà che noi procedessimo da un’unica fonte, affinché fosse maggiore il nostro desiderio di reciproca concordia, e affinché ciascuno potesse tanto più liberamente abbracciare l’altro come propria carne. Inoltre, come gli uomini furono creati per abitare la terra, così dobbiamo certamente concludere che Dio ha delimitato, quasi tracciandone il confine, quello spazio di terra che sarebbe stato sufficiente ad accogliere gli uomini e a costituire per loro una dimora adatta. Ogni disuguaglianza che sia contraria a questo ordinamento non è altro che una corruzione della natura che procede dal peccato. Nel frattempo, tuttavia, la benedizione di Dio prevale a tal punto che la terra ovunque rimane aperta perché abbia i suoi abitanti, e che una moltitudine immensa di uomini possa trovare, in qualche parte del globo, la propria dimora. Ora, quanto ho detto riguardo al matrimonio deve essere tenuto presente: Dio intende che il genere umano sia moltiplicato mediante la generazione, ma non, come negli animali bruti, mediante un commercio promiscuo. Infatti egli ha unito l’uomo alla sua moglie affinché producessero una discendenza divina, cioè legittima. Notiamo dunque a chi Dio qui si rivolge quando comanda di crescere, e a chi limita la sua benedizione. Certamente egli non scioglie le redini alle passioni umane, ma, iniziando dal matrimonio santo e casto, passa a parlare della produzione della prole. È inoltre degno di nota che Mosè qui accenni brevemente a un argomento che in seguito intende spiegare più ampiamente, e che l’ordine regolare della narrazione sia invertito, ma in modo tale da rendere evidente la vera successione degli eventi. Si pone tuttavia la questione se fornicatori e adulteri diventino fecondi per la potenza di Dio; e, se ciò è vero, se allora la benedizione di Dio si estenda allo stesso modo anche a loro. Rispondo che questa è una corruzione dell’istituzione divina; e sebbene Dio produca prole da questa pozza fangosa così come dalla pura fonte del matrimonio, ciò servirà alla loro maggiore distruzione. Rimane tuttavia saldo quel metodo puro e legittimo di accrescimento che Dio ha stabilito fin dal principio: questa è quella legge di natura che il buon senso dichiara inviolabile. Soggiogatela. Egli conferma quanto aveva già detto riguardo al dominio. L’uomo era già stato creato con questa condizione: che sottomettesse a sé la terra; ma ora, finalmente, viene messo in possesso del suo diritto, quando ode ciò che il Signore gli ha concesso. E questo Mosè lo esprime ancora più chiaramente nel versetto seguente, quando introduce Dio che gli concede le erbe e i frutti. Infatti è di grande importanza che non tocchiamo nulla della bontà di Dio se non ciò che sappiamo egli ci ha permesso; poiché non possiamo godere di nulla con buona coscienza, se non lo riceviamo come dalla mano di Dio. E perciò Paolo ci insegna che, nel mangiare e nel bere, pecchiamo sempre, se non è presente la fede (Romani 14:23). Così siamo istruiti a cercare da Dio solo tutto ciò che ci è necessario e, nell’uso stesso dei suoi doni, ad esercitarci nella meditazione della sua bontà e della sua cura paterna. Poiché le parole di Dio hanno questo senso: «Ecco, ho preparato il cibo per te prima che tu fossi formato; riconoscimi dunque come tuo Padre, che ho provveduto con tanta diligenza a te quando ancora non eri stato creato. Inoltre, la mia sollecitudine per te è andata ancora oltre: spettava a te nutrire le cose che ti erano state provvedute, ma io ho assunto anche questo compito. Perciò, sebbene tu sia in un certo senso costituito padre della famiglia terrestre, non sta a te essere eccessivamente ansioso per il sostentamento degli animali». Alcuni deducono da questo passo che gli uomini si accontentassero di erbe e frutti fino al diluvio, e che fosse addirittura loro illecito mangiare carne. E ciò sembra tanto più probabile in quanto Dio, in qualche modo, circoscrive il nutrimento dell’umanità entro certi limiti. Poi, dopo il diluvio, concede loro espressamente l’uso della carne. Queste ragioni, tuttavia, non sono sufficientemente forti; poiché si può addurre, in senso contrario, che i primi uomini offrivano sacrifici tratti dai loro greggi. Inoltre, questa è la legge del sacrificare rettamente: non offrire a Dio nulla se non ciò che egli ci ha concesso per il nostro uso. Infine, gli uomini erano vestiti di pelli; dunque era loro lecito uccidere animali. Per queste ragioni, ritengo che sia meglio per noi non affermare nulla di definitivo su questa materia. Ci basti sapere che le erbe e i frutti degli alberi furono loro dati come cibo comune; tuttavia non vi è dubbio che ciò fosse ampiamente sufficiente per la loro massima soddisfazione. Infatti giudicano con saggezza coloro che sostengono che la terra fu talmente guastata dal diluvio, che noi conserviamo appena una porzione moderata della benedizione originaria. Già immediatamente dopo la caduta dell’uomo, essa aveva cominciato a produrre frutti degeneri e nocivi, ma con il diluvio il mutamento divenne ancora maggiore. Comunque stiano le cose, Dio certamente non intendeva che l’uomo fosse mantenuto in modo misero e scarso; anzi, con queste parole promette un’abbondanza generosa, tale da non lasciare mancare nulla a una vita dolce e piacevole. Poiché Mosè racconta quanto fosse stato benefico il Signore verso di loro, nel concedere loro tutte le cose che potevano desiderare, affinché la loro ingratitudine avesse tanto meno scusa.
E Dio vide ogni cosa Ancora una volta, alla conclusione della creazione, Mosè dichiara che Dio approvò tutto ciò che aveva fatto. Nel parlare di Dio come di colui che vede, egli si esprime alla maniera degli uomini; poiché il Signore volle che questo suo giudizio fosse per noi una regola e un esempio, affinché nessuno osi pensare o parlare diversamente delle sue opere. Non ci è infatti lecito discutere se debba essere approvato o no ciò che Dio ha già approvato; ma piuttosto ci conviene acconsentire senza controversia. La ripetizione indica anche quanto sia sfrenata la temerarietà dell’uomo: altrimenti sarebbe stato sufficiente dire, una volta per tutte, che Dio approvò le sue opere. Ma Dio inculca per sei volte la stessa cosa, affinché freni, come con altrettanti morsi, la nostra inquieta audacia. Mosè però esprime qui più che prima; infatti aggiunge מאד (meod), cioè “molto”. In ciascuno dei giorni era stata data una semplice approvazione; ma ora, dopo che l’opera del mondo fu compiuta in tutte le sue parti e, per così dire, ricevette l’ultimo tocco finale, egli la dichiara perfettamente buona, affinché sappiamo che nella simmetria delle opere di Dio vi è la massima perfezione, alla quale nulla può essere aggiunto.